È in qualche modo segno dei tempi, la convocazione a sorpresa di Berlusconi da parte della magistratura romana, per lo stralcio dell’inchiesta milanese sui fondi neri Mediaset. Uno stralcio, va detto subito, di assai modesta entità, grazie anche agli effetti della legge Cirielli, una delle tante norme «ad personam» volute dal premier, per accorciare i termini di prescrizione. L’accusa originaria per l’azienda di famiglia del Cavaliere s’è negli anni ridimensionata, dai mille miliardi di lire ad alcune decine di milioni di euro di evasione, in una serie di transazioni sul mercato off-shore dei diritti di film destinati alle tv berlusconiane. A dispetto di tanti giudici onesti che vestono la toga con onore, infatti, la Procura di Roma da decenni si porta dietro l’ingiuria del «Porto delle nebbie». Governi e ministri di tutti i tempi, colpiti da inchieste, hanno sempre cercato di spostare i loro guai giudiziari nella Capitale.
Non perché speranzosi di un esame più benevolo delle accuse che li riguardavano, ma perché a Roma i tempi, già lunghissimi, dei processi, subiscono un ulteriore rallentamento. E nei meandri del «Palazzaccio», com’è chiamato l’edificio in riva al Tevere, che oggi ospita solo la Cassazione, i processi spesso si dissolvono senza una vera ragione, e soprattutto senza arrivare a sentenza. Ma se anche l’indolente liturgia delle toghe romane – già perseguita, anni fa, in una lotta fratricida, dai colleghi milanesi – ha avuto un soprassalto, significa che qualcosa sta cambiando. E senza andare tanto lontano, vuol dire che la magistratura della Capitale, la più contigua, non fosse che per ragioni geografiche e toponomastiche, ai Palazzi del potere politico, ha percepito i sintomi della dissoluzione del centrodestra sullo specifico e insidioso terreno della riforma della giustizia. Una riforma tante volte annunciata, a pezzi e nel suo insieme, e finora mai realizzata per mancanza di accordo. Ma sulla quale adesso il Cavaliere ha deciso di giocare in un sol colpo la posta dell’intera legislatura.
Saranno pure coincidenze, chi può dirlo. Eppure, se si mettono in fila le cronache giudiziarie degli ultimi mesi, la sensazione si rafforza. In passato quando mai si sarebbe vista un’inchiesta come quella che – stringendosi attorno alla «cricca» del costruttore Anemone e del Provveditore alle Opere pubbliche Balducci – è arrivata a sfiorare Palazzo Chigi, le Mura Vaticane e la felpata schiera dei gentiluomini di Sua Santità? Con la rivelazione, che ha fatto altro rumore, di una quinta colonna tra gli alti gradi della stessa magistratura inquirente, e le conseguenti dimissioni dal suo ufficio del procuratore aggiunto della capitale Achille Toro, accusato di aver passato informazioni riservate ai futuri imputati.
Vanno inquadrate in questo stesso filone l’inchiesta sulla cosiddetta P3, che coinvolge il coordinatore del Pdl Denis Verdini, e adesso anche quella che ha portato alla convocazione di Berlusconi. Convocazione tardiva, in extremis, se è vero che di qui a pochi giorni tutto l’incartamento sarebbe caduto in prescrizione, e invece la chiamata del presidente del Consiglio, che si avvarrà del «legittimo impedimento», darà un altro anno e mezzo di tempo agli inquirenti per inquisirlo.
Naturalmente nessuno può mettere in dubbio le ragioni della Procura, specie in casi in cui l’intreccio di interessi obliqui e illegali è evidente. Non è in discussione, in altre parole, che la giustizia debba fare il suo corso. Quel che colpisce è solo il cambio di velocità, dalla marcia lenta alla corsa. È inevitabile, ancorché indimostrabile, che il nuovo ritmo abbia risentito del rilancio della riforma della giustizia e dell’intenzione annunciata dal premier di andare allo scontro, non più con le toghe politicizzate, ma con la magistratura nel suo insieme.
Indipendentemente dalle nuove accuse piovutegli sul capo, è su questo che Berlusconi dovrebbe riflettere. Com’è impostata – una sorta di redde rationem con i magistrati -, la riforma non va da nessuna parte. Basta solo rileggere le proposte: la nuova bozza, tanto per fare un esempio, aggiunge anche l’ipotesi di obbligare la Corte Costituzionale ad approvare le sue sentenze con maggioranze di due terzi. A parte il fatto che un’innovazione come questa richiederebbe una nuova legge costituzionale, come quella che faticosamente sta affrontando l’iter parlamentare per restaurare il lodo Alfano, si può pensare che una norma del genere trovi davvero l’appoggio di cui ha bisogno per essere approvata, a cominciare dal «sì» di Fini? E si può credere, nel caso in cui si ritenga di vararla con legge ordinaria, che la Consulta rinunci successivamente a dichiararla incostituzionale?
Purtroppo la scelta dello scontro frontale, maturata ancora una volta dal Cavaliere, potrà portare solo nuovi conflitti e pochi o nessun risultato pratico. Un fallimento già prevedibile, che sarebbe veramente un peccato, perché tra le riforme attese dal Paese, quella della giustizia è tra le più urgenti. Non a caso il Capo dello Stato non si stanca di sollecitarla. Ma una riforma contro i magistrati, oltre ad essere sbagliata, difficilmente vedrà la luce. Servirà piuttosto a creare nuove occasioni di rottura politica, ad aprire la strada a elezioni giocate sul tema della legalità e a una campagna elettorale orrenda: fatta di accuse contrapposte, spiate e denunce anonime, come quelle degli ultimi mesi, in un clima di fine regime. Un altro passo avanti verso il baratro, che ancora può essere evitato.
da www.lastampa.it