C´è una logica implacabile all´opera, nella decisione del ministro Tremonti di negare i fondi per le carriere dei ricercatori universitari, e con questo di mettere in crisi l´intera riforma Gelmini. Ed è la medesima logica che affiora nella battuta da lui appena pronunciata – e mai, credo, smentita: «La cultura non si mangia».
Sia chiaro. Il ministro non dice una parola sulla sostanza dei provvedimenti: l´inquadramento dei ricercatori, o l´impianto del disegno Gelmini – sui quali, pure, si potrebbe discutere moltissimo. A lui, questo merito non interessa. Non vuole migliorare, cambiare, modificare. E nemmeno “punire” (i professori o i ricercatori). No. Semplicemente, dell´università italiana non gliene importa niente, come uomo di governo: è l´ultimo dei suoi pensieri. Può anche andare in malora.
Bisogna avere il coraggio di dirla, questa drammatica verità, prima di sbattervi contro. Colui il quale esercita di fatto le funzioni di presidente del Consiglio – tranne che per quanto attiene alle questioni di giustizia – ha in mente un´idea del Paese e del suo futuro, che spiega benissimo le sue scelte e il suo agghiacciante umorismo. Egli accetta e promuove l´esistenza di due Italie: una destinata a precipitare nella regressione, e l´altra, invece, votata a salvarsi. E sta lavorando per rendere questa frattura un punto di non ritorno, il caposaldo politico del dopo Berlusconi. Forse lo fa per pessimismo conservatore, forse per malinteso realismo. Ma sta divaricando le parti della nostra società spezzate dalla crisi: sia orizzontali, geografiche (Nord e Sud, per esempio), sia verticali, sociali (professionalità emergenti e vecchi ceti medi in caduta libera: nuove ricchezze e nuove povertà).
Il primo pezzo – l´Italia che affonda – in questa strategia non ha che da rassegnarsi al peggio: a scambiare il lavoro con i diritti – e questo riguarda sia il vecchio lavoro industriale, sia il nuovo lavoro precario ad alta intensità tecnologica – e ad acconciarsi a uno spazio pubblico sempre più degradato, in cui la crisi finanziaria della scuola e dell´università diventa il simbolo di un ritrarsi generale dello Stato anche da funzioni finora considerate primarie. Questa Italia – per il nostro ministro – non ha bisogno di un´università in piedi. Va benissimo una specie di esamificio senza prospettive e senza speranze. Non ha bisogno di un´edilizia scolastica appena decente, con un minimo di infrastrutture e di servizi: è già troppo quella che c´è. Questa Italia è bene si chiuda nelle sue paure e nelle sue fragilità, che trasformi in fortezze i suoi territori, e che si affidi alla Chiesa, come ha fatto sempre. Che rimanga ringhiosa, isolata e passiva. Ipnotizzata dalle televisioni e lontana dalla politica: per quest´ultima basta, a tempo debito, qualche onda plebiscitaria opportunamente indotta. Per lei, “che la cultura non si mangi” può anche essere uno scherzo ben riuscito, una verità sana ed elementare.
Tanto, c´è un´altra Italia – su cui contare e su cui far leva – che si salva grazie allo stratificarsi dei suoi privilegi antichi e recenti, e al loro trasformarsi in opportunità e in occasioni. Questa parte è già intrinsecamente globalizzata: nei circuiti produttivi, nella finanza, nei servizi, nella formazione. Per lei, il Paese come sistema unitario – l´Italia come patria comune – sta già cessando di esistere. Non si affida più in nulla o quasi alle strutture pubbliche. Il suo futuro è sciogliersi nel mondo – il nostro antico cosmopolitismo – e al diavolo tutto il resto.
Quest´altra Italia non ha bisogno più di una grande università nazionale, perché si educa attraverso reti private, o direttamente europee e americane. Pensa, produce e lavora su scala globale, e guarda con fastidio a ogni vincolo locale.
Ebbene, le scelte politiche del nostro ministro dell´Economia nei confronti della scuola e dell´università vanno nella direzione di far saltare tutti i nessi fra queste due società, rendendo impossibile mantenere aree di solidarietà e di condivisione. Un´importante università pubblica sarebbe per definizione il luogo dove sviluppare queste pratiche e questi legami. Ma che farsene, se si persegue l´opposto?
Vi è nell´epilogo dell´avventura politica di Berlusconi una carica di nuovo classismo – di classismo senza più il contrappeso della lotta di classe, per così dire – una spinta alla divisività del Paese, che è forse il suo aspetto peggiore e più rischioso. L´università e la scuola sono finite nella morsa di questa tenaglia, che minaccia di sottrarre vita a intere generazioni, e di trasformare l´Italia nell´autentico laboratorio della nuova diseguaglianza.
da www.repubblica.it