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«Dopo tante parole tutto come prima», di Irene Tinagli

Desta scalpore lo stop alla riforma dell’Università dato dalla Commissione Bilancio. Fa discutere sia perché questa riforma è stata sempre presentata dal governo come uno dei perni della sua azione innovatrice, sia perché mette in mostra le contraddizioni di un rimpallo di responsabilità e di uno scarso coordinamento tra vari ministri.

Ma non erano proprio il ministro Tremonti e la Gelmini che non molto tempo fa ci rassicuravano che le risorse per la riforma dell’Università c’erano? Insomma, questa riforma ha assunto ormai un significato politico molto forte: il suo slittamento a fine anno sarebbe un duro colpo all’immagine del governo, in una fase peraltro molto delicata. Ma mentre tutti riflettori sono sullo slittamento, poche riflessioni sono condotte su ciò che è alla base di questo rinvio e le sue implicazioni non tanto per la tenuta del governo, ma per la riforma stessa e l’Università. La riforma infatti è stata bloccata dalla Commissione Bilancio per la mancata copertura finanziaria di 23 dei 26 articoli del provvedimento.

Di fatto però a far saltare la copertura è un emendamento introdotto alla Commissione Cultura della Camera, che istituisce un Fondo per far passare, nel periodo dal 2011 al 2016, 9000 ricercatori a professori associati. Oltre due miliardi di euro in sei anni destinati non a progetti di ricerca o investimenti, ma per «stabilizzare» 9000 ricercatori. Non si tratta di una vera e propria ope legis, perché questi ricercatori saranno assunti secondo procedure di valutazione, abilitazione e chiamata già previste dalla riforma, ma il fatto è che con questo emendamento si dà priorità ad un solo aspetto della riforma (l’assunzione di associati) prima che molti altri aspetti cruciali del provvedimento vengano definiti e regolamentati, primi fra tutti gli incentivi legati ai criteri di assunzioni e promozioni delle università, che restano demandati a decreti successivi, le risorse da distribuire secondo valutazioni di qualità e così via.

In un sistema di questo genere far partire le assunzioni «per chiamata» significa di fatto immettere definitivamente nel sistema accademico novemila persone sulla cui futura performance e qualità nessuno sarà chiamato a rispondere direttamente. Intendiamoci: di per sé, la chiamata diretta non è un male: se le Università ricevessero davvero i fondi sulla base della qualità del loro lavoro, e fossero chiamate a rispondere fino in fondo delle proprie scelte, l’abolizione dei concorsi e la chiamata diretta sarebbero in realtà il metodo più sensato e snello di condurre ricerca scientifica, così come avviene negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e molti altri Paesi. Ma questi cambiamenti chissà quando saranno effettivi nella nostra Università. Non solo: nessun emendamento si è preoccupato delle nuove posizioni di accesso al sistema: si aiutano i ricercatori già operativi, ma che ne sarà di tutti i dottorandi o aspiranti ricercatori che non avranno nessuna risorsa per i famosi contratti a tempo determinato? È difficile pensare a come si coltiveranno le prossime generazioni di ricercatori quando tutte le (poche) risorse mobilitate saranno destinate a professori associati e ordinari. Questa misura getta moltissime ombre sulla portata innovativa e le aspirazioni rivoluzionarie della riforma. Che ne è del rinnovamento, del rigore della selezione legata a meriti e risultati, e soprattutto delle opportunità per i più giovani? Questa confusione e questi cambiamenti di rotta sono difficilmente spiegabili se non con il tentativo di sopire le tante proteste di quest’autunno e sbloccare l’attività degli Atenei, nonché di far recuperare un po’ di popolarità al governo in difficoltà. Tuttavia, non è così che si fa bene al Paese.

Le riforme andrebbero portate avanti con visione d’insieme e coerenza interna, non dando priorità ai pezzi che fanno comodo al momento. Questa nuova configurazione della riforma potrà giovare a molti ricercatori già inseriti da tempo nel sistema e ai rettori che così potranno stabilizzare le attività dei loro atenei senza tanti stravolgimenti e senza rimettere troppe cose in discussione. Ma non gioverà ad un vero rinnovamento del nostro sistema, che avrebbe richiesto non tanto soldi per accontentare qualcuno e sopire le proteste, ma una riforma vera, organica, con più fondi da distribuire alle università secondo criteri di performance e finanziare progetti di ricerca innovativi e all’avanguardia. E non giova alle nuove generazioni, che avrebbero avuto bisogno di risorse per nuove posizioni di accesso e percorsi chiari e che invece si vedranno la strada sbarrata da un provvedimento che alla fine metterà a rischio l’apertura di nuove posizioni per molti anni a venire, così come è già avvenuto altre volte in passato.

Siamo quindi di fronte a una situazione molto triste perché, comunque vada, sarà una sconfitta. Sarà una sconfitta se la riforma si arenerà, perché con essa salteranno anche le cose buone che vi erano rimaste e che sarebbe stato opportuno avviare quanto prima (a partire dalle borse di studio per gli studenti più bravi che avevano fatto sperare tante famiglie). Ma sarà una sconfitta anche se il governo troverà le risorse per vararla con questi ultimi emendamenti, perché alla fine sarà l’emblema della natura inguaribilmente gattopardesca di tanta nostra azione politica: discussioni, lotte, proteste, grandi epocali riforme che aspirano a cambiare tutto e che finiscono poi per lasciare tante cose come prima.

da www.lastampa.it

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