CARO ministro Gelmini, sono una ricercatrice di Cà Foscari, insegno sociologia. Mai avrei pensato di scriverle sino ad oggi, ma la situazione è grave. Mi perdoni se per un istante le parlo apertamente. Ho due anni meno di lei e sono rientrata in Italia nel 2008 dopo aver trascorso il resto degli anni 2000 negli Stati Uniti. Quand’ero un Ph. D. student negli States con molti docenti c’era un rapporto di amicizia.
Nel mio Dipartimento c´erano molte donne, young faculty, associate o full professors. Il reclutamento di nuovi docenti era un processo in cui erano coinvolti tutti, anche i graduate students avevano potere decisionale. Tra le tante cose che valutavamo c´era l´età del candidato, perché più l´Università è giovane e più è viva.
Ricordo che al mio arrivo come studente di dottorato al primo anno avevo trovato ad attendermi all´aeroporto il direttore del Dipartimento. Amava gli studenti perché credeva rappresentassero il futuro e voleva che fossimo tutti nelle condizioni migliori per lavorare. Ricordo che a lezione gli undergraduates non avevano timore di porre domande, che c´era complicità tra studenti e docenti, che si respirava un´orizzontalità a me sino ad allora sconosciuta.
Nel 2008 sono rientrata in Italia. Non era mio desiderio, ma la vita a volte fa strani scherzi. Ricordo con opacità un concorso con altri sei colleghi. Due di noi avevano trent´anni, gli altri ne avevano più di quaranta. Discutevano di candidati interni o esterni, del numero di concorsi tentati e destinati ad altri. Parlavano di famiglie e di figli, di bollette, di una passione messa a dura prova dalla precarietà e dalla svalutazione del sapere.
All´epoca sapevo poco dell´università italiana. Non sapevo che cosa significasse essere un ricercatore, sapevo che il mio stipendio entrante negli Stati Uniti era tre volte lo stipendio che prendo ora. Non mi sono stupita ovviamente quando nessuno è venuto a prendermi all´aeroporto, mi sono stupita quando mi sono accorta di avere poche colleghe donne, quando ho conosciuto colleghi che avevano due volte e mezza i miei anni, quando ho realizzato che durante le riunioni ufficiali i ricercatori difficilmente parlavano. Negli anni mi hanno colpita anche altre cose, ad esempio il fatto che l´autonomia di pensiero venisse a volte considerata non tanto come una conquista sublime ma come un segno di arroganza precoce; che in Università come in strada esistessero parole come protettore e tradimento, e che la giovane età non fosse un pregio bensì un difetto: i giovani del resto non hanno un nome, non hanno capitale, non hanno reti di conoscenza già intessute, non hanno potere politico.
Capirà con quanta meraviglia abbiamo vissuto questi mesi, quant´è stato travolgente vedere migliaia di ricercatori mobilitarsi a partire dal senso di stima di sé, dalla responsabilità per il futuro, dall´entusiasmo, dall´amore per il sapere. Capirà con quanta energia abbiamo cominciato a parlare negli atenei della sua riforma e quant´è stato rigenerante scoprire che potevamo cambiare le cose in meglio. Ci siamo accorti che l´Università pubblica può essere riformata anche senza mutilazioni, che basterebbe invertire un po´ la piramide ordinari-ricercatori per ridurre di molto i costi, per aumentare la democrazia interna, per dare un significato onesto al concetto di meritocrazia. Ci siamo resi conto anche che la sua riforma non va in questa direzione, accentra il potere verso l´alto piuttosto che distribuirlo verso il basso.
Ci siamo resi conto che la sua riforma vorrebbe tagliare i corsi di laurea “inutili”, ma che la definizione di inutilità è sempre un po´ ambigua. Infine ci siamo dovuti arrendere al fatto che lei non pensa ai giovani, anzi propone il blocco delle assunzioni di nuovi ricercatori a tempo indeterminato, cosa che non solo spingerebbe i migliori di noi all´esodo, ma che data l´età media del corpo docente italiano spingerebbe nel medio periodo l´Università pubblica al collasso. Non entro nel merito degli effetti congiunti del suo DdL e dei tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario all´Università, perché se lo facessi dovrei concluderne che il governo ha in mente un progetto antropologico regressivo per il popolo italiano. Voglio piuttosto dire che tutti noi siamo preoccupati: ricercatori, precari, studenti, professori associati, professori ordinari e presidi.
Siamo preoccupati perché ci sembra che vi interessi di più il bene di pochi che il bene di tutti, e che Confindustria abbia più diritto ad entrare nella governance dell´Università di quanto quei giovani “capaci, meritevoli ed anche privi di mezzi” di cui parla la Costituzione abbiano diritto di studiarvi. Siamo preoccupati perché crediamo che in questo quadro fosco fatto di crisi economica, di precarietà e di crisi di governo non abbia senso dare prove di forza o perseguire un voto politico. Crediamo che il diritto all´istruzione in Italia sia in pericolo, e che sia nostro dovere proteggerlo oggi domani e sempre, sino a quando riusciremo a creare un´università aperta, orizzontale e di tutti.
(*ricercatrice di Cà Foscari)
da www.repubblica.it