IN UN CERTO SENSO – in senso propriamente sciasciano – Sciascia se l´è voluta. Forse è così che Sciascia, ironico e borgesiano, comincerebbe quest´articolo su Sciascia. Ma poi sicuramente userebbe la Sicilia come randello, magari intervenendo a sorpresa in uno dei tanti convegni dove, almeno ogni sei mesi, un numero limitato ma crescente di ‘pensatori´ berlusconiani commette “sottrazione di cadavere”.
E idealmente lo annette al lodo Alfano, al processo breve, alle leggi ad personam, all´eroismo dello stalliere Mangano. È così che la Civetta diventa l´Avvoltoio e il garantismo un´impostura, come quando Minzolini cita Amendola e Berlusconi dice di ispirarsi a Calamandrei perché tanto, direbbe ancora Sciascia, “tintu cu mori”, sventurato chi muore e non è più in condizione di difendersi, e ogni cosa gli si può attribuire. «Aspiro – è la frase che scelse come epigrafe – , per quando sia morto, a una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio».
Ovviamente nessuno, certamente non io, e neppure Emanuele Macaluso che domani manda in libreria una biografia politica (Leonardo Sciascia e i comunisti, Feltrinelli), sa quali cronachette volterriane lo scrittore dedicherebbe alle ronde padane, alle violenze contro gli immigrati, al legittimo impedimento, allo scudo fiscale. Ma poiché Sciascia morì nel 1989, prima ancora di Tangentopoli, temo che «risiedevo già qui e poi vi sono nato» non potrebbe più dire dell´Italia e di tutte le mirabolanti novità del potere italiano, dal conflitto di interessi alla mignottocrazia, dall´abuso di stato all´impunità spudorata e alla legge bavaglio, che sono tutte al di sotto dell´universo sciasciano e caso mai, «se davvero il futuro ha una memoria», un poco appartengono ai trafficanti gogoliani di anime morte.
Anche Emanuele Macaluso rimane tramortito ogni volta che il ministro Alfano, aprendo o chiudendo un solenne seminario, lancia una bombetta puzzolente, come di recente ha fatto a Racalmuto: «Dio solo sa come l´Italia e la Sicilia avrebbero bisogno dell´autore del Giorno della civetta». A me capita sempre più spesso di essere invitato a convegni, dove non vado, i cui relatori appartengono quasi tutti allo stesso ‘tipo´ lombrosiano, dal sottosegretario Alfredo Mantovano a Vittorio Sgarbi, dagli avvocati di Silvio Berlusconi a Marcello Dell´Utri. E tutti rivelano di ispirarsi al garantismo di Sciascia che, statua dentro una santa nicchia, benedice questa rovina. Ma è una malefatta per tutti noi prima ancora che per la memoria di Sciascia, per la sua grandezza di scrittore e per il suo impegno civile, per i fantasmi illuministi che abitano la sua stanza-museo alla Noce, per la Critica della Ragion Pura che Sciascia usò sempre per fare «abballari la gran surdana» al potere. Sempre all´opposizione. E sempre a sinistra, anche quando si fece radicale, che fu la sua stagione più felice, quella in cui scoprì le radici, e sempre mettendo l´etica al primo posto, sacerdote della forma e della regola perché come ricorda Macaluso «anche rileggendo I professionisti dell´antimafia chiara e indiscutibile è l´avversione radicale a leggi o ad atti amministrativi ad personam fatti anche con le migliori intenzioni».
È vero che rimangono appassionanti, ma solo per gli studiosi di biografie e per i filologi, le polemiche di Guttuso e Sciascia che erano due fratelli e si guastarono, dove guastarsi è un´altra maniera di vivere insieme, senza perdersi di vista. È invece sicuramente miserabile il tentativo di fare ancora litigare i morti o i vivi con i morti. Oggi, il torto dell´uno è la ragione dell´altro perché l´uno era fatto dell´altro, come i gemelli mitologici, come Prometeo ed Epimeteo, e le loro vite sono il riassunto di un´epoca. E non ci sono più conti da saldare con Berlinguer né con Giorgio Amendola o con Ugo La Malfa né via via con tutti i grandi protagonisti delle polemiche del tempo, e neanche con Eugenio Scalfari e con Repubblica ovviamente, stili e dettagli di vita che sono contributi all´autobiografia del secolo.
Perciò è veniale il peccato di Macaluso che, a 86 anni, preso dalla voglia di ritrovarsi con l´amico alla fine della storia, quella che si compie nel regno dei cieli dove il tempo non esiste, deforma amabilmente Sciascia sino a farlo di nuovo assomigliare a Macaluso, come da ragazzi, quando frequentarono la stessa scuola e poi anche la stessa cellula clandestina del Pci. Gli rimette pure in bocca qualche frase filosovietica scritta nel 1964 e poi ancora un elogio di Krusciov…, a conferma, credo, che non è stata ancora scritta la storia degli anticomunisti che militarono nel Pci, a partire, molto prima di quel Candido dove Sciascia fu impietoso anche con Macaluso, da quel racconto che Italo Calvino, per anni ‘guida´ politica di Sciascia, scrisse sulla rivista Città aperta uscendo dal partito nel 1956; e pensate alla meraviglia di lasciare un partito con un racconto! La grande bonaccia del Mar delle Antille – nel gabbiere Slim John era trasfigurato Antonio Giolitti – provocò le specialissime ire di Togliatti perché la letteratura, alla quale Calvino e Sciascia e Manzoni appartengono, non ha sul retro la data di scadenza che hanno invece le polemiche politiche di centocinquanta anni fa (Manzoni), o di cinquanta anni fa (Calvino) o di trenta anni fa (Sciascia).
Giù le mani da Sciascia, dunque. Non so se riusciremo a salvarlo dai pataccari pelosi come il ministro Alfano e dalla maleducazione compiaciuta e sapiente dei Vittorio Sgarbi che gli rapinano l´identità. È però molto importante restituirlo alla letteratura perché «non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano». Con le idee di vita e di morte, del potere e dell´amore, di bellezza e di forza, del dolore e dell´amicizia Sciascia ha consegnato alla grandissima arte anche l´idea di giustizia. Appartiene all´universo di Dürrenmatt e del Manzoni della Colonna Infame, non certo a Marcello Dell´Utri, all´avvocato Mills e a Gaspare Spatuzza.
Scrisse Sciascia di Borges: «In un certo senso – in senso propriamente borgesiano – Borges se l´è voluta… E così sia di noi».
da www.repubblica.it