Futuro e libertà s’appresta a diventare l’ottantaduesimo partito della seconda Repubblica. Una madre generosa, dato che fin qui ha partorito cinque o sei figli l’anno, e senza l’aiuto della fecondazione artificiale. Cambia qualcosa per la politica italiana quest’ennesima creatura? E cambia qualcosa per le istituzioni, per i loro fragili equilibri?
Domanda malandrina, perché chiama in causa il presidente della Camera, che del nuovo partito è fondatore e leader. Ma è un dubbio che ci era già rimbalzato addosso quando Berlusconi aveva giudicato incompatibile lo scranno di Fini con il battesimo dei gruppi parlamentari targati Fli. Sicché, a rigirarla fra le dita, la domanda di giornata è un’altra: cambia qualcosa per la sua permanenza in carica la trasformazione dei gruppi in un partito? In punta di diritto no, non cambia nulla. Perché i regolamenti parlamentari escludono la mozione di sfiducia verso il presidente d’assemblea.
Una scelta fatta per liberare lo stesso presidente dai ricatti di questa o quella maggioranza, per renderlo indipendente, e perciò imparziale. Perché d’altra parte il cordone ombelicale che legava il presidente del Consiglio a quello di Montecitorio si spezzò già durante l’Ottocento, quando Crispi fece cancellare il proprio nome dall’elenco dei votanti, per non confondersi con le truppe del governo, per marcare una distanza. E perché infine ogni parlamentare – anche se presiede l’assemblea – ha l’obbligo di iscriversi ad un gruppo, perché di norma a ogni gruppo corrisponde un partito, e perché dunque tutti i presidenti di Montecitorio hanno sempre indossato una maglietta di partito.
Ma non c’è solo il metro della doverosità: in queste faccende è altrettanto importante l’opportunità costituzionale, benché nessuna norma ne abbia mai stabilito il perimetro, i confini. Insomma una categoria sfuggente, e perciò opinabile come l’etica pubblica di cui costituisce la proiezione, come le regole di correttezza, come la distinzione fra rappresentanza (formale) e rappresentatività (sostanziale). È su questo terreno che s’esercita il ruolo del Capo dello Stato, quando rifiuta per esempio la promulgazione d’una legge: non in base a un giudizio di legittimità costituzionale (che spetta viceversa alla Consulta), ma per l’appunto in quanto la ritiene lacerante, in contrasto con l’unità degli italiani, e quindi sommamente inopportuna. È opportuno che il partito del presidente della Camera sia determinante per la prosecuzione della legislatura? Tutto sommato ci può stare, d’altronde è lo stesso film cui abbiamo già assistito quando al suo posto c’era Bertinotti. Ed è opportuno che il presidente Fini imponga nel calendario dei lavori la riforma elettorale che sta a cuore al suo partito? Qui la domanda ti fa storcere la bocca. Ma soprattutto: c’è una differenza fra conquistare Montecitorio da presidente di partito (com’era già successo a Bertinotti, e prima di lui a Casini), e conquistare un partito da presidente di Montecitorio?
Diciamolo senza troppi giri di parole: la differenza c’è e si vede. Altro è scalare le istituzioni attraverso la politica, altro è scalare la politica attraverso le istituzioni. Altro è fondare un gruppo parlamentare per esprimere un dissidio rispetto alla maggioranza cui appartieni, una divergenza di strategie o di priorità ma non anche di obiettivi; altro è trasferire questo disaccordo dai corridoi di Montecitorio alle piazze, alle città. Che cos’è infatti un partito? Un’associazione di persone che condividono una visione di parte, dunque particolare e partigiana, dell’interesse generale. I partiti si distinguono l’un l’altro (o almeno dovrebbero: ma in Italia non sempre succede) perché inalberano concezioni opposte della società, dei suoi bisogni, delle sue prospettive. Sicché giocoforza si dividono, e dividono i loro elettori; ma è opportuno che il divorzio venga sottoscritto da chi rappresenta viceversa l’unità? A queste domande può rispondere soltanto il diretto interessato. Ma le domande, diceva Oscar Wilde, non sono mai indiscrete. Lo sono, talvolta, le risposte.