Nel retropalco, prima e dopo che parlasse Berlusconi, non trovavi un solo dirigente pronto a scommettere un euro sulla possibilità di trovare un accordo con Fini. Nemmeno un euro che la legislatura possa andare oltre la prossima primavera. Tuttavia il problema è che tanto il premier quanto il presidente della Camera hanno bisogno di tempo per ragioni opposte. Il primo deve ridare smalto al suo partito, a quel Pdl che ha perso consensi al Nord e al Sud. E deve recuperarlo con una nuova comunicazione su cosa ha fatto il governo in questi ultimi due anni, con una mobilitazione militante annunciata ieri dallo stesso Cavaliere dal palco del Castello Sforzesco. Ma soprattutto con qualche bel provvedimento economico che dia ossigeno a imprese e a famiglie.
E’ Fini però che ha più bisogno di tempo per mettere in campo il suo partito e farlo crescere, succhiando amministratori, giovani e scontenti dalle fila del Popolo della Libertà. «Il tempo – spiegava Denis Verdini – fa danno più a noi. Non possiamo rimanere inchiodati a loro gioco: noi responsabili e loro che gettano il cappello in aria, preparano il patto e l’alleanza con Casini e forse con il Pd. Non possiamo stare fermi».
Del resto è quello che ha fatto capire Berlusconi nel suo intervento. Un comizio che aveva tutto il sapore di un inizio di campagna elettorale. Non a caso è stato preceduto dal famoso video con la calza della sua discesa in campo del ‘93. Quando poi è arrivato lui sul palco, ha detto che di quel messaggio non c’è una parola da cambiare. E ha chiuso il comizio invocando il ritorno allo spirito del ‘94 quando vinse le prime elezioni. Passando per alcuni ricordi polemici. Quando il suo primo governo andò in crisi, con Fini e Casini che sostenevano la necessità di andare ad elezioni senza la Lega: alla fine per colpa loro «il Paese è stato consegnato alla sinistra».
Qualcosa del genere, è l’antifona, potrebbe accadere anche adesso. Ora che Casini e Fini fanno l’«occhiolino» alla sinistra sulla legge elettorale e sostengono le stesse posizioni della sinistra su «fantomatici governi tecnici». A quel punto il Cavaliere avrebbe potuto affondare il coltello come hanno fatto i coordinatori La Russa, Bondi e Verdini nell’intervista collettiva che ha preceduto il comizio del premier. Si è limitato a dire che «liti, mesi di stillicidio e chiacchiere» hanno offuscato i risultati del governo. Niente affondi diretti. Ma l’avviso agli «amici che hanno costituito nuovi gruppi parlamentari» è chiaro: «Non attenderemmo un minuto ad andare davanti agli elettori se verrà meno la lealtà, che metteremo alla prova».
Il volto è scuro come non si vedeva da tempo. Ha dato l’impressione di un uomo impotente, che non sa bene cosa fare, come liberarsi di una camicia di forza in cui è strozzato. Ha cercato di non dare grossi pretesti a Fini per farsi attaccare, ma quando ha alzato i toni sulla magistratura e invocato una commissione sui loro comportamenti lo ha fatto per provocare l’avversario. Mettendo in difficoltà le colombe e il ministro della Giustizia Alfano che tutto vorrebbe tranne che una commissione di questo genere. Da Palermo, dove è rimasto per ricevere il Papa, Alfano ha fatto sapere di non essere d’accordo con questa iniziativa, ma di non poterlo dire pubblicamente.
Lo sforzo sovrumano che il premier sta facendo è quello di addossare la colpa della rottura a Fini. E tentare un accordo sullo scudo giudiziario. La Russa conferma che non basta il Lodo Alfano che, essendo una legge costituzionale, richiede quattro letture. Ci vuole almeno un anno «e magari succede che Fini, per guadagnare tempo, vota il Lodo alla prima, alla seconda e alla terza lettura e poi alla quarta manda tutti a quel Paese. E’ inutile girarci attorno: è necessario il processo breve». Ma i finiani dicono che non lo voteranno mai con la norma transitoria che annulla migliaia di processi per salvare il Cavaliere. «Allora le cose si mettono molto male», conclude La Russa.
La Stampa 04.10.10