Viviamo fra incertezze e inquietudini per ciò che ci aspetta e ci consola pensare che sia colpa dei politici di oggi. Guardiamo alla politica interna e vediamo i nostri leader immersi nei conflitti del loro presente e per questo lontani dai problemi del nostro futuro. Guardiamo alla politica europea e la vediamo dominata da mille localismi di cui i leader sono prigionieri e non riescono per questo a costruire il futuro comune di cui sentiamo il bisogno. Erano meglio i leader di una volta – diciamo a noi stessi – loro sì che si impegnavano sui veri problemi.
Non sarò io a negarlo, è verissimo che in passato abbiamo avuto leader politici di alta statura che si sono cimentati con le questioni cruciali del tempo. Ma lo scarto che oggi constatiamo fra domande e risposte, fra bisogni e soluzioni non è solo questione di qualità personali e di attenzione maggiore o minore dedicata alle cose che contano. C’è anche il fatto che le cose che contano sono diventate dannatamente più difficili specie per chi governa l’Europa e i suoi stati membri.
Quando, nel secondo dopoguerra del secolo scorso, ricostruimmo i nostri stati e costruimmo l’Europa, eravamo circondati da un mondo per tre quarti più povero di noi e ancora immobile nella sua povertà.
Avevano preso a sovrastarci gli Stati Uniti, ma per noi non erano un concorrente, continuavano ad essere una terra promessa per i nostri disoccupati e un mercato prezioso per i nostri prodotti. Ancora padroni del commercio internazionale insieme agli americani, incrementammo quello intra-europeo grazie alla nascita del mercato comune e demmo così una formidabile spinta a tutte le nostre economie. Arrivarono il miracolo francese e quello tedesco e arrivò anche il miracolo italiano.
Non solo, ma profittammo della nostra ritrovata prosperità e di una favorevole situazione demografica (avevamo allora più giovani e più generazioni mature che non anziani, vale a dire più contribuenti che beneficiari) e ci dotammo di sistemi pensionistici e di welfare che nessun’altra parte del mondo avrebbe conosciuto.
Il futuro era scritto nelle cose che facevamo e tutte davano corpo alla speranza di un futuro migliore.
Oggi la speranza di un futuro migliore è interamente trasmigrata in quei tre quarti del mondo che circondavano un tempo la nostra isola felice e che oggi si sono svegliati. Da noi prevale invece la paura. Quel mondo esterno è ora o un temibilissimo concorrente o la fonte di flussi migratori che ci chiamano a condividere la sua residua povertà. C’è chi se la cava meglio di altri, e la Germania in questo senso fa testo. Ma nell’insieme per noi, per i nostri giovani e per gli stessi immigrati c’è sempre meno lavoro ed è sempre più difficile crearne di nuovo, mentre si è rovesciata la situazione demografica, con un numero crescente di anziani e un numero decrescente di giovani, che proiettano squilibri insostenibili sul welfare dei prossimi anni. Se aggiungiamo l’impennata dei debiti pubblici largamente dovuta alla recente crisi finanziaria, è sempre più concreta l’aspettativa che quello che ci siamo permessi sinora non ce lo potremo permettere più.
Insomma, la politica di un tempo organizzava le nostre speranze, quella di oggi riesce soltanto a rispondere alle nostre paure. Pensate com’è cambiato il significato della parola “riforme”. Cinquant’anni fa riforme erano appunto quelle che consentivano di dare ai più ciò che prima era di pochi (la riforma della scuola, la riforma sanitaria, persino la riforma delle pensioni). Oggi sono quelle che riducono ciò che abbiamo e certo, notano Mauro Ceruti e Tiziano Treu nel loro Organizzare l’altruismo (Laterza, 2010), «non sono fatte per rassicurare i cittadini».
Per questo alle elezioni guadagnano terreno i partiti populisti, in genere (ma non solo) di destra, capaci più degli altri di sintonizzarsi sulle paure e di dar loro un bersaglio (la Cina, gli immigrati, l’Islam, i politici tutti), mentre chi soffre di più sono i partiti di sinistra, nati e cresciuti per promettere un futuro migliore e sprovvisti oggi di ingredienti credibili per dar corpo alla loro promessa.
Davanti allo scivolo che porta al successo del populismo – ha scritto Gianni Riotta nel suo editoriale di domenica scorsa – è bene aver chiaro che lo stesso populismo e la xenofobia appagano per un po’, ma se è il lavoro che mi manca, ciò che mi serve è che qualcuno me lo crei. Il che – ha aggiunto Riotta – è sempre meno facile in questa «intrattabile crisi del XXI secolo», per superare la quale non serve esecrare gli altri, servirebbe «aggiungere qualche pagina al manuale di Samuelson».
Il punto è proprio questo. C’è un limite al populismo, c’è un limite alle riforme che tolgono, non ci sono i soldi per le vecchie riforme che davano. Sulle mappe di cui disponiamo, la strada per il nostro futuro non c’è ed è inutile perciò guardare al passato. Ma davvero il futuro che abbiamo davanti in Europa e in Italia è il futuro dei perdenti in un mondo nel quale la maggioranza degli altri, dal Brasile alla Cina, progredisce a passi in più casi da gigante? Se è vero che la speranza è andata altrove, è vero anche che l’Europa ha tuttora formidabili risorse da mettere a frutto e le ha l’Italia. E se è vero che stiamo invecchiando, i giovani da noi ci sono ancora e hanno il diritto e il dovere di trovarlo il loro futuro. Ci sono delle tracce che li aiutino a farlo?
Forse quella suggerita dal giovane primo ministro David Cameron, che propone agli inglesi di liberarsi il più rapidamente possibile del debito creato dai più vecchi (loro lo hanno fatto, loro lo ripaghino) e ridare così all’economia il respiro che le serve per crescere. Forse quella suggerita da Sergio Marchionne, che propone agli italiani di lavorare con efficienza non cinese, ma (almeno) tedesca. O forse ciò di cui si discute nella sinistra europea, la ripresa aggiornata del socialismo etico con un mix di efficienza, pubblica e privata, e di equità a fini di eguaglianza, non lontano dal Brasile di Lula.
Ha ancora ragione Riotta quando scrive che il Presidente Obama si è dedicato anima e corpo ai veri problemi ma senza successo, visto che il ceto medio è sempre scontento e i disoccupati sono senza lavoro. Se neppure negli Stati Uniti è bastata la dedizione del presidente, forse sono proprio le ricette dei suoi consiglieri (consiglieri dei tempi di Clinton, che non a caso egli ha preso a cambiare) a risultare superate e a non servire allo scopo. Capitò già con Herbert Hoover, scelto dagli americani per la sua competenza davanti alla crisi del 1929, ma poi rivelatosi incapace di uscirne. Mentre ci riuscì il suo successore, Franklin Delano Roosevelt, che seppe aprire con il New Deal una pagina nuova nella storia dell’America e del mondo.
Quello che stiamo vivendo è forse il tempo degli Hoover. Ma proprio per questo dobbiamo guardare avanti, e devono farlo per primi i più giovani, alla ricerca del nostro New Deal.
Il Sole 24 Ore 03.10.10