Nel marzo scorso il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, da podi affiancati, invocarono un «governo economico» per l’Europa. L’invocazione fu accolta dall’intero Consiglio europeo dopo solo tre mesi; ma chi leggeva il comunicato ufficiale scopriva che nelle principali lingue dell’Unione il concetto era espresso con tre parole diverse, di forza decrescente (Gouvernement, Governance, Steuerung). Ora la Commissione propone come tradurre quel concetto in regole, procedure, poteri, sanzioni.
L’impianto è questo: le regole di bilancio restano quelle del Patto di stabilità, ma il debito pubblico (sotto il 60 per cento) – finora trascurato – assurge alla stessa importanza del deficit (sotto il 3); si rafforzano i meccanismi di controllo e le sanzioni; alla disciplina di bilancio si aggiunge una politica di prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici; si fa più autonomo il potere della Commissione e più difficile il boicottaggio del Consiglio.
Le proposte sono complesse e occorre guardarsi dai giudizi affrettati; tanto più che non sappiamo con quali modifiche diverranno norme, né come le norme saranno poi applicate. Suggerisco questa linea di giudizio e di condotta negoziale: si lavori sull’impianto proposto cercando di trarne il massimo, ma nello stesso tempo si pongano in essere, anche se in forma embrionale, gli strumenti di un vero governo economico europeo, indirizzandoli al sostegno della crescita: bilancio dell’Unione, una tassa europea, eurobonds, uso attivo del nuovo Fondo di Stabilità Finanziaria.
I limiti dell’impianto sono evidenti. Ho altre volte sostenuto che una politica economica europea fondata sul mero coordinamento è nello stesso tempo troppo debole e troppo ambiziosa. Debole, perché minata dal fatto che sono i giudicati ad essere giudici, soprattutto quando la Commissione si lasci da essi intimidire. Ambiziosa, perché neppure là dove una vera federazione esiste, il governo federale ha un potere di coordinamento sulle politiche dei federati (si chiamino Stati, Länder, Province o Regioni). Quello che si propone ora è, forse, sì un governo europeo, ma – a differenza della moneta – un governo privo di strumenti europei, affannato a indirizzare strumenti e variabili nazionali, quali il bilancio, il debito, la produttività, i salari. Insomma, una felliniana prova d’orchestra.
Una condanna immediata sarebbe però un errore. Non dimentichiamo che nel 1957 sia Altiero Spinelli sia Jean Monnet dettero del Trattato di Roma un giudizio assai più negativo di quello che la storia ed essi stessi decretarono in seguito. Bocciare la proposta non spianerebbe la strada verso l’impianto giusto, verso il vero governo europeo; aumenterebbe solo la cacofonia attuale. Se accolte e applicate al meglio, le regole e le procedure proposte potranno rafforzare – pur nei limiti del modello del coordinamento – la disciplina degli orchestrali e l’autorità del direttore.
Il dibattito è incominciato, e chi pronunciava parole forti sembra ora preferire una sostanza debole. Il ministro francese si affretta a dichiarare eccessive le nuove regole; quello tedesco le accetta e le giudica insufficienti. Inizia un negoziato che durerà mesi. Era accaduta una cosa simile 22 anni fa quando venne avviato il progetto dell’unione monetaria. Per la Germania doveva significare una moneta e una banca centrale; per la Francia un fondo di riserva comune, che lasciasse in vita molte monete e politiche monetarie nazionali. Prevalse il fondamentalismo tedesco e l’euro si fece.
Il Corriere della Sera 03.10.10