cultura

Taglia la cultura chi non capisce la cultura

Nel bell’editoriale del mensile di Umberto Allemandi, l’impietoso, drammatico quadro dello sfascio del nostro patrimonio culturale.
È difficile sostenere che la cultura possa essere esentata dai drastici risparmi che l’equilibrio dei bilanci pubblici impone a tutti. Ed è inutile rimpiangere il fiume di denaro sciupato nel passato per beni culturali fasulli, in massima parte non meritevoli di così nobile classificazione. Beni non apportatori delle sostanze nutritive vitali con cui la cultura contribuisce alla buona salute di un Paese. I tagli dunque potrebbero perfino essere accolti con sollievo se servissero finalmente a staccare l’ossigeno ad attività pretestuose della cui privazione oggi e domani nessuno patisce, se non i diretti destinatari di denaro pubblico che serviva esclusivamente alla loro sussistenza personale.

Parassiti culturali. Lo scandalo Premio Grinzane Cavour è esemplare. Quei tagli dovevano essere fatti da tempo. Oggi comunque potrebbero venire considerati una salutare pulizia se basati su valutazioni consapevoli, caso per caso, della qualità di quanto debba essere sostenuto a qualsiasi costo e di quanto invece possa essere eliminato senza rimpianto. Tagli benvenuti dunque se imponessero uno stop definitivo alle cosiddette e maledette erogazioni a pioggia, espressioni del sistema di un Paese da secoli strutturato sulla cortigianeria e sulla mendicità intellettuale. Di un Paese sostanzialmente assistenziale. Da ciò reso pusillanime, pigro, servile e corrotto. Un Paese ben rappresentato dai personaggi impersonati da Totò e Alberto Sordi.

Il sistema delle sovvenzioni era molto apprezzato dai detentori del potere economico e politico perché garantiva la sottomissione remissiva di un settore vocazionalmente inquieto e critico che in se stesso coltiva germi di pericolose virulenze. Ma per selezionare occorre una conoscenza sicura dei prodotti e delle attività, una competenza che soltanto la pratica della cultura può dare, una severità rigorosa capace di prescindere da qualsiasi giudizio che non sia una valutazione del merito e della qualità. Nessuno degli uomini politici e degli amministratori che ci governano sembra dotato di tali requisiti, di un’autentica consuetudine, esperienza e frequentazione della cultura. Chi non usa la cultura nella propria vita privata, chi non l’ha resa parte integrante della propria esistenza quotidiana, chi quindi non sa quanto essa sia essenziale non meno del cibo e delle vesti, è improbabile che possa operare con sapienza chirurgie che possono risultare letali per il benessere profondo del Paese. Ad esempio, erano state finanziate quantità assurde di libri vanitosi, inutili, pleonastici, velleitari e dispendiosi. Eppure il libro è tuttora il principale deposito e vettore di cultura: non dovremmo finanziarne più nessuno? Alcune fondazioni e governatorati regionali hanno deciso così. Su cento libri, non è totalmente sciocco, per i 98 da gettare, negare ai due o tre meritevoli il supporto di cui hanno bisogno per esistere ed essere divulgati?

Il fatto è che fondazioni e Regioni dopo aver detto di sì a tutti ora trovano più comodo dire di no a tutti. Per risanare un’azienda occorrono, ma non bastano, tagli; di soli tagli un’azienda soccombe. Occorre innovazione, capacità di riforme spesso non costose, ma semplicemente intelligenti. Tagliare con una mano, creare con l’altra. Questa è la forza e il senso della politica, il talento del governare. Di innovazioni non vediamo il minimo segnale. Questo giornale cerca con fatica di mantenersi distaccato da pregiudizi, luoghi comuni e schieramenti di parte, finge di ignorare comportamenti e linguaggi inadeguati, imbarazzanti per la loro volgarità, limitatezza, convenzionalità e oscurantismo, ma basta scorrere la squallida cronaca degli ultimi mesi perché chiunque possa farsi un giudizio della pessima qualità, dell’incredibile mal governo dei beni culturali in Italia. Ecco l’agghiacciante sequenza (nessuno osi dire che il Governo è inattivo nei beni culturali):

Restauratori
La riforma (quasi 2Omila domande giunte) appare fatalmente destinata a impantanarsi in una dimensione che denota colpevole imprevidenza mettendo a repentaglio una tradizione professionale in cui l’Italia è ancora leader.

Parchi nazionali.
La stessa ministra Prestigiacomo ha minacciato di chiuderne almeno metà se non verranno annullati i tagli di bilanci che erano già insufficienti. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, incalzato da Giulia Maria Crespi del Fai, ha suggerito di promuovere una campagna stampa. Il braccio destro del capo del Governo! Se ci crede, non può pensarci lui?

Arcus.
Doveva alimentare in via sussidiaria i beni culturali, ora è sospettata di usi impropri, arbitrari e non prioritari. Leggete la lista integrale delle elargizioni in questo numero comprende casi e privilegi veramente imbarazzanti.

Beni demaniali.
L’elenco di dodicimila edifici e luoghi da trasferire in nome del federalismo terrorizza le amministrazioni periferiche (Regioni e Comuni) che li equiparano in gran parte ad altre bocche da sfamare rifilate a chi non ha pane abbastanza per se stesso. Di fatto espone edifici rilevanti e paesaggi all’abbandono oppure al rischio di usi devastanti per l’inevitabile soccombenza a interessi particolaristici che localmente (per di più in condizioni di indigenza) non paiono arginabili e controllabili. Fatto sta che lo Stato si alleggerisce di colpo di una mole pesantissima di beni di rilevanza culturale. Intanto, le città di Firenze e di Roma si sbranano con il Ministero per la spartizione dei biglietti del David e del Colosseo. E’ solo l’inizio del federalismo culturale.

Permessi edilizi.
L’avvento dopo le Dia delle Scia (licenze di costruire con semplice autodichiarazione) rappresenta il comodo cedimento della classe dirigente alla propria inettitudine riformatrice, alla propria incapacità di imporre la faticosa riforma di un’asfissiante burocrazia. Diventa quasi impossibile il controllo delle Soprintendenze. La sciagurata pratica del «silenzio assenso» per le attività edilizie significa nel Paese più delicato del mondo l’abbandono all’anarchia del paesaggio (già dimezzato e devastato negli ultimi sessant’anni), del patrimonio edilizio e dei centri storici. Di fatto è un autocondono.

Il fotovoltaico.
La tolleranza di un regime folle di incentivazioni dì insediamenti non regolati costituisce la minaccia di un cancro distruttivo di paesaggi agricoli ancora bellissimi e incoraggia l’abbandono di pregiate colture incontaminate da secoli. In pratica, si annuncia la replica di ciò che le serre sono state per la deturpazione del paesaggio. Liguria docet.

Questi sono soltanto alcuni e più vistosi comportamenti dell’attuale politica italiana. Berlusconi, Tremonti (che tace ma agisce) e Bondi certamente hanno loro problemi, meriti e talenti, ma di fatto nel settore artistico e culturale dimostrano cinica e terrificante incomprensione o indifferenza per le vere esigenze di tali beni malgrado il loro grande valore, rivelandosi persone stranamente prive di sensibilità e dimestichezza culturale (al di là di vacue e tronfie dichiarazioni di circostanza che ormai non riescono a ingannare neppure il più ottuso seguace. Ma è possibile che sia soltanto questa, così nefasta e spericolata, così cinica, la nostra «politica» nei beni culturali? Consoliamoci: sono state anche varate le ricompense per gli sponsor che dovranno finanziare i restauri del Colosseo. Uno dei principali simboli e richiami turistici del Paese) e il direttore Resca ha predisposto le gare per la gestione delle fonti di introiti per 25 musei e luoghi archeologici (biglietterie, negozi, pubblicazioni, mostre). Sono iniziative necessarie e indispensabili (da sole non giustificherebbero l’aver creato un’apposita Direzione). Passi che tali gare siano tanto restrittive da far temere d’esser state anch’esse progettate ad personam (anzi ad aziendam: lo scandalo è che gli italiani non si scandalizzano più), ma appaiono mostruosamente caratterizzate da un solo obiettivo, da una monomaniaca ossessione: lo «sfruttamento». In questo modo di fare politica la redditività dei beni artistici sembra essere l’unico valore ammesso. Una concezione davvero rozza e riduttiva per un Paese assai dotato di arte e bellezze come l’Italia.

Zero assoluto invece per riforme che sarebbero davvero necessarie e innovative. Per esempio, modificare la legislazione affinché la gestione degli introiti non sia più centralizzata ma venga assegnata a ciascun museo renderli autonomi perché assumano la responsabilità diretta del proprio successo e della propria conduzione. Premiare i dirigenti in relazione a iniziative e risultati. Restauratori, parchi nazionali, beni demaniali, paesaggio, edifici e centri storici, culture agricole tradizionali: sono capacità professionali, beni e temi a dir poco capitali del patrimonio nazionale (nostra vera, unica ricchezza), che ci accingiamo a perdere irrimediabilmente. Perderli è una prospettiva spaventosa. Perderli per un deliberato banditismo o per rapina sarebbe orribile e doloroso, come subire una violenza, come una guerra persa, ma perderli per insipienza o incompetenza di qualcuno cieco e sordo (o, se preferite, ignorante e arrogante) è irritante in misura insopportabile. Tutto ciò che uccide la nostra cultura, uccide la capacità di difendere e conservare quanto rendeva ancora diversa, ancora bella, ancora attraente la nostra Italia. Non s’illuda, caro lettore, non è uno scherzo. Nessun pentimento, nessun lieto fine a sorpresa. E la condanna a una morte certa dalla quale non sarà possibile resuscitare.

Il Giornale dell’Arte settembre 2010