C’è un nuovo made in Italy che si sta facendo strada nel mondo. Un made in Italy che forse da noi non fa molta notizia, perché sfugge agli stereotipi dell’artigiano con il metro che pende dal collo o chino su una forma di parmigiano che tanto amiamo, ma che sta facendo scintille.
Sono fenomeni come Grom, catena di gelaterie di alta qualità ormai famosissima; oppure Amorino, altro marchio di gelaterie di lusso nato da due italiani che hanno conquistato la Francia (circa trenta negozi in pochissimi anni).
O ancora Christian Oddono, l’italiano che sta sbaragliando il mercato del gelato in Gran Bretagna. I casi di Grom, Amorino e Oddono sono già stati molto citati, ma tutte le attenzioni sono state rivolte al prodotto venduto, il gelato, rivendicando la rinascita di uno dei nostri prodotti più noti nel mondo, più raramente alle persone e alle competenze che ci sono dietro. E invece è proprio lì che dovremmo andare a guardare per trovare il vero trait d’union di queste tre storie e di molte altre in altri settori. Nessuna di queste persone era gelataio di professione prima di questa avventura imprenditoriale, né probabilmente ci pensava da ragazzino. Erano ragazzi che pensavano a studiare. E infatti sono tutti laureati, e molti di loro, forse per combinazione, sono laureati alla Bocconi, che non è esattamente il Cordon Bleu. Lì hanno studiato corporate finance, management, contabilità e gestione dei costi, non il punto di cottura del soufflé. Dopo la laurea hanno maturato esperienze aziendali e di alta finanza, come Oddono, che lavorava in corporate finance nella City di Londra, o come Paolo Benassi, uno dei cofondatori di Amorino, che seguiva la distribuzione di Max Mara.
Così, mentre noi continuiamo a celebrare l’idea dell’attività artigiana vecchio stile, quella che «non si impara a scuola ma solo sul mestiere», meglio se già a 14 anni, questi casi ci mostrano un made in Italy costruito su competenze economiche, finanziarie e di marketing di altissimo livello, sull’ambizione di trentenni formatisi in università prestigiose o nella City di Londra. Un made in Italy con la laurea.
E infatti sono proprio le capacità organizzative, economiche e finanziarie acquisite con gli studi ed esperienze manageriali che hanno consentito a questi nuovi imprenditori di fare quello che fino ad ora l’Italia ha faticato a fare: l’industrializzazione dell’artigianato italiano. Un concetto che per decenni in Italia è sembrato una contraddizione in termini, quasi un insulto alla nostra tradizione artigiana. Un pregiudizio (o un’incapacità) che abbiamo pagato caro visto che alla fine sono state multinazionali straniere a industrializzare molti dei nostri prodotti tipici. Noi avevamo la tradizione dei bar dove si sorseggia caffè leggendo il giornale, ma la catena Starbucks è nata a Seattle. Noi avevamo la pizza, ma la catena Pizza Hut è nata, anche lei, negli Stati Uniti. E così via per l’abbigliamento, i mobili, o lo stesso gelato, i cui primi casi di industrializzazione del gelato di alta qualità sono nati con i marchi Haagen Dazs e Ben & Jerry. Fino ad oggi. Né Amorino né Grom né Oddono sono ancora passati alla grande distribuzione, ma hanno comunque compiuto un importante passo. Uno scale up reso possibile non tanto grazie al prodotto in sé, che alla fine ha poco di rivoluzionario, ma alle competenze, alla visione strategica, alla capacità di costruire un marchio riconoscibile, di posizionarsi bene in mercati tutt’altro che facili. Ed è questa capacità manageriale, più che l’attrattività dei prodotti italiani, il fenomeno che merita più attenzione, quello che accende una speranza per il futuro del made in Italy. Il futuro del made in Italy non si basa sulla probabilità che tornino di moda prodotti come il gelato, il caffè o il prosciutto, ma sulla capacità di far nascere e crescere nuovi imprenditori competenti e internazionali capaci di reinterpretare i modelli organizzativi del made in Italy e di portarlo nel mondo.
Non solo, ma la capacità organizzativa e la visione internazionale potrebbero consentire agli italiani di compiere un passo ulteriore: di «fare agli altri quello che è stato fatto a noi». Ovvero quello di creare opportunità imprenditoriali globali e innovative su prodotti e culture stranieri. Perché no? Perché gli stranieri possono invadere il mondo con catene di ristoranti ispirati al caffè o alla cucina italiana e gli italiani non possono portare nel mondo catene o prodotti ispirati alle culture straniere? Lo ha già fatto Marco Fiorese, altro ex bocconiano che dopo anni di esperienza in operazioni di internazionalizzazione di aziende italiane in Cina ha creato una catena di fast food asiatici, ZenZen. In pratica ha mutuato la cultura americana del fast food da un lato e i sapori e la tradizione culinaria asiatica dall’altro. In appena 4 anni ZenZen ha già 20 ristoranti in tutto il mondo.
Ecco, queste sono le nuove generazioni di aziende e di imprenditori che l’Italia dovrebbe puntare a formare, anche perché, nonostante questi illustri esempi, sono ancora pochi i laureati che scelgono di misurarsi con avventure imprenditoriali. Eppure per fare impresa oggi non basta la conoscenza tecnica del prodotto, ma occorrono capacità manageriali e organizzative di alto livello – non è un caso se tutti questi esempi vengono da percorsi formativi di natura economico-manageriale.
Invece da noi si continua a vivere nel mito dell’artigiano solitario chiuso nella bottega con i suoi apprendisti, il mito del mestiere che si tramanda di generazione in generazione, come se tutto il mondo intorno non cambiasse mai. Peggio ancora, cerchiamo a tutti i costi di adattare i nostri giovani a questo mondo antico, incitandoli all’umiltà e alla riscoperta del mondo che fu, abbassando l’obbligo scolastico per metterli prima possibile dietro a un tornio o a un bancone, mentre dovremmo fare il contrario: aiutare il nostro piccolo mondo antico ad adattarsi alle nuove dinamiche mondiali, a diventare sempre più appetibile per manager ed imprenditori preparati e ambiziosi, e per finanziatori internazionali che forse subiscono anche il fascino della vecchia bottega, ma ancora di più quello di un piano aziendale solido e supportato da competenze di alto livello.
La Stampa 28.09.10