E’ stato un gesto di irresponsabilità, in cui hanno giocato un ruolo decisivo le fondazioni bancarie, quello che ha portato all’impeachment di Alessandro Profumo senza un sostituto e senza un preciso capo d’accusa. Un nuovo amministratore delegato dovrà essere trovato entro poche settimane, da un consiglio tutt’altro che coeso al suo interno. Bene che si faccia sin d’ora chiarezza sui criteri e le procedure che verranno seguite nel selezionare i candidati. Sarà fondamentale anche rivedere la governance di Unicredit che si è rivelata fragilissima. La lezioni da trarre è che le fondazioni devono uscire dalle banche. Gioverebbe alle banche, alla collettività. E anche a loro.
Il metodo scelto per far fuori Alessandro Profumo da Unicredit è stato dei peggiori.
IMPROVVISAZIONE E IRRESPONSABILITÀ AL POTERE
Gli azionisti hanno ovviamente il diritto di sostituire un amministratore delegato. Buoni azionisti lo fanno quando l’ad smette di produrre valore per l’impresa. Buoni azionisti, prima di farlo, trovano un adeguato sostituto, soprattutto se l’avvicendamento avviene in un momento di tensione come quello oggi attraversato da Unicredit: una colosso bancario in mezzo al guado della svolta organizzativa che dovrebbe portare alla banca unica e con 4.100 esuberi all’orizzonte. Buoni azionisti decidono il cambio di management all’interno del consiglio di amministrazione, con tutte le sue componenti, per evitare futuri scollamenti.
A Unicredit non è andata così: Profumo è stato licenziato fuori dal cda e solo la sua insistenza, quella del collegio sindacale e dei consiglieri indipendenti nel pretendere un voto palese ha provocato un dibattito e una scelta tra i consiglieri. Ciò non ha rimediato all’altro problema, l’assenza di un sostituto. Chiunque capisce che trovare un manager adatto a gestire una banca di quelle dimensioni e complessità richiede tempo perché si pesca da un pool molto ristretto: farlo in fretta produce quasi sicuramente errori seri. Il presidente Dieter Rampl ha avocato a sé le deleghe ma non può tenerle per più di qualche settimana senza violare nella sostanza le istruzioni di vigilanza oltre che principi elementari di governance. Ma il sostituto dovrà ora trovare il gradimento delle varie consorterie che hanno prodotto il licenziamento di Profumo, processo che non promette tempi rapidi. Dovrà essere tedesco? O piuttosto provenire dal Veronese? O, per accontentare entrambi, magari lo si cercherà nell’Alto Veneto, ai confini con il Sud Tirolo? Tanti più vincoli si aggiungono alla ricerca del prossimo amministratore delegato, tanto più è probabile che l’osservanza di questi vada a discapito dell’unico criterio che dovrebbe informare la scelta: competenza e adeguatezza a gestire l’ottava banca europea, sin qui l’unica banca multinazionale italiana. Bene che si faccia fin d’ora chiarezza sui criteri e le procedure. Ad esempio, non ci risulta che sia stata sin qui incaricata un’agenzia di head hunting. È così? Perché?
PERCHÉ UNA SCELTA COSÌ PRECIPITOSA?
La gestione di Profumo non è stata priva di errori. Ma non è facile giustificare una scelta tanto precipitosa con una cattiva performance dell’ad, almeno per quel che è dato conoscere.
Primo, sotto la guida di Profumo la dimensione dell’istituto è aumentata di cinque volte e mezzo in dieci anni senza registrare perdite di efficienza e garantendo un cost income ratio piuttosto stabile al 55 per cento (vedi tabella 2). Dal 29 aprile 1997 al 17 settembre 2010, la durata della carica di Profumo, titolo e dividendi hanno offerto un rendimento dell’8 per cento, contro il 7 per cento delle banche italiane in generale.
Secondo, la performance di Unicredit durante la crisi non è stata peggiore di quella delle altre grandi banche italiane, che possono essere prese come benchmark. La tabella 1 mostra i rilevanti dati di bilancio negli ultimi quattro esercizi (due antecedenti alla crisi e due successivi alla crisi), comparandoli con quelli di altre grandi banche italiane. Durante la crisi il ROE medio è stato attorno al 5 per cento, in linea con quello di Intesa-San Paolo e superiore a quello delle altre banche (1). Insomma, le informazioni disponibili dicono che Profumo ha gestito una fase difficile con risultati comparabili, se non migliori degli altri, rafforzando la stabilità dell’istituto senza ricorrere a interventi dello stato.
Terzo, è vero che la forte crescita di Unicredit e l’errore compiuto con l’acquisizione di Capitalia (a prezzi troppo alti) hanno contribuito alla crisi di capitalizzazione del 2008 ed a risultati inferiori a quelli di altre grandi banche nel 2009. Ma l’outlook di Unicredit è dato in netto miglioramento da tutti gli analisti: ad esempio, Ubs prevede un raddoppio del return on equity nell’anno in corso e un ulteriore aumento nel 2011; e lo stesso fanno gli analisti di Nomura. Dietro lo scenario in ripresa ci sono le misure intraprese da Profumo in termini di aumento di capitale (ovviamente indigeste ai grandi azionisti) e di tagli ai costi. E alla luce di prevedibili miglioramenti degli utili, la scelta di disfarsi di Profumo avrebbe avuto vita breve, come le congiure che non si consumano in una notte. Occorreva fare in fretta, sfruttando l’estemporanea convergenza di interessi di azionisti altrimenti eterogenei: fondazioni italiane e partecipanti tedeschi al capitale, per i quali un manager forte e indipendente come Profumo era diventato ingombrante per la realizzazione delle loro strategie. Il peso crescente delle banche libiche nell’azionariato di Unicredit è stato solo un pretesto per il dimissionamento forzato, come ha ammesso lo stesso Rampl (LINK a intervista al Corriere). Del resto il chiarimento tra i soci di maggioranza e Profumo su questo aspetto c’era già stato da settimane.
UN PROBLEMA DI ARROGANCE O DI GOVERNANCE?
Profumo è stato accusato di avere accumulato molto potere di fronte alla proprietà dell’impresa. È stato definito “arrogante”. Vero. Come non avevamo mancato di rilevare su questo sito, all’inizio di ottobre 2008, in mezzo alla tempesta che aveva colpito Unicredit, Profumo, davanti agli studenti del Collegio di Milano, aveva ribadito la sua intenzione di lasciare il timone della sua banca per il suo sessantesimo compleanno, cioè otto anni dopo, rivelando una fiducia assoluta nel fatto che il suo consiglio di amministrazione lo avrebbe appoggiato in modo incondizionato e ancora così a lungo. I compensi ricevuti negli ultimi dieci anni da Profumo (50,7 milioni di retribuzioni, 7 di assegnazioni azionarie e 40 di buonuscita) sono una dimostrazione del potere che aveva accentrato su di sé. Si tratta di più di tre volte la media dei compensi dei manager delle altre grandi banche italiane, oltre che di quasi duecento volte il costo del lavoro medio dei dipendenti Unicredit in questo periodo.
Se un amministratore delegato acquisisce tanto potere rispetto agli azionisti, ciò riflette una debolezza intrinseca dell’azionariato e una correzione di rotta è desiderabile. Ma non necessariamente nel manager, quanto nella struttura e nella qualità della proprietà. Questo avrebbe dovuto fare Unicredit. Invece si ritrova un board assembleare, con ben 23 consiglieri, i cui interventi vengono battuti dalle agenzia di stampa ancora prima di essere conclusi. Con evidenti conflitti di interessi (pensiamo al caso di Maramotti, vice-presidente del Credito Emiliano, banca concorrente di Unicredit, che è stato particolarmente attivo nella cacciata di Profumo) .
QUANDO LE FONDAZIONI AFFONDANO UNA BANCA
Nell’allontanamento di Profumo hanno esercitato un ruolo cruciale le fondazioni bancarie, definite dal Financial Times “una importante parte regionale del controllo politico-economico del sistema (in italiano nel giornale) sulle banche”. Questo è il dato su cui riflettere.
Le fondazioni dovevano uscire gradualmente dall’azionariato delle banche e non dovevano comunque utilizzare le loro partecipazioni come strumento di controllo. Ciò perché per costituzione hanno obiettivi distorti: essendo di emanazione politica privilegiano il controllo sull’efficienza. Se investite della scelta del management possono preferire un manager arrendevole e ossequioso a uno competente e indipendente. Per le loro finalità istituzionali, le fondazioni dovevano investire le loro dotazioni in modo da contenere il rischio e massimizzare gli utili per renderli alle loro comunità in opere di pubblica utilità. Detengono invece portafogli, concentrati aumentando il rischio dell’investimento e trasferendolo di fatto ai loro concittadini: è quanto è accaduto con la ricapitalizzazione di Unicredit. In cambio ottengono il potere di decidere la composizione dei cda e rimuovere manager, spesso perdendo di vista le finalità sociali e le stesse esigenze delle comunità locali. Ad esempio, è singolare che le fondazioni ampiamente rappresentate nel board di Unicredit (9 consiglieri su 23 sono di loro nomina) non abbiano trovato nulla da ridire quando è emerso che la banca aveva collocato un’enorme quantità di prodotti derivati presso piccoli e grandi enti locali, esponendo a gravi rischi i loro bilanci futuri.
Peccato, perché la diversificazione avrebbe reso le Fondazioni al contempo meno vulnerabili a una crisi che per lungo tempo è destinata a ridurre i profitti delle banche e in grado di allargare il proprio raggio di azione, sentendosi meno vincolate alla base locale tradizionale. Peccato, perché dare in gestione le banche (come qualunque impresa) a un manager compiacente significa anche darla a uno poco competente. A pagare saranno i cittadini che oggi i sindaci, non si capisce bene a che titolo, dicono di difendere.
La lezione da trarre da questa vicenda è che bisogna scrivere la parola fine sul controllo esercitato dalle fondazioni bancarie sulle maggiori banche italiane. Niente più posti da consigliere nei cda delle banche decisi dalle fondazioni magari al loro interno, niente più manager nominati e rimossi da organismi di stretta nomina politica. Affidino il ricavato dalla cessione di queste posizioni a dei gestori, come il resto della loro dotazione. La parola d’ordine deve essere diversificazione. Farà bene anche a loro, oltre che alle banche e al sistema delle imprese. Le banche rischiano di offrire dividendi molto magri per un periodo di tempo molto lungo. Se le fondazioni non diversificano il loro portafoglio, rischiano di finire dissanguate.
Per le tabelle 1 e 2 clicca qui
(1) Unicredit calcola il Roe come il rapporto tra l’Utile d’esercizio (comprensivo delle minority) e ilPatrimonio netto di pertinenza del Gruppo. Ci è sembrato più corretto sostituire, nel numeratore di tale rapporto utilizzare l’Utile netto di pertinenza del Gruppo (cioè escluse le minority). In questo modo il Roe calcolato da noi risulta inferiore rispetto al Roe pubblicato ogni anno nel bilancio di Unicredit.
da lavoce.info