La battaglia contro Alessandro Profumo e la conquista di Unicredit è l´ultima, grande operazione del capitalismo di rito berlusconiano-geronziano. L´indecoroso «dimissionamento» dell´amministratore delegato e il clamoroso ribaltone al vertice della prima banca italiana non è solo la sconfitta di una certa idea del libero mercato, dove ognuno fa il suo mestiere: la politica detta le regole del sistema, i manager gestiscono le società creando valore per gli azionisti, e i soci incassano gli utili e i dividendi. In Italia non funziona così: nelle grandi casseforti dell´economia e della finanza, spesso blindate tra partecipazioni incestuose e relazioni pericolose, politici arrembanti e azionisti deferenti si alleano per far fuori i manager disobbedienti. Letta in questa chiave, la battaglia di Piazza Cordusio e la cacciata di Profumo lasciano sul campo due sicuri vincitori: Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi. Il presidente del Consiglio ottiene una vittoria politica, in vista dell´appuntamento cruciale che, nella sua agenda, è fissato per il marzo 2011: le elezioni anticipate. Il presidente delle Generali strappa una vittoria finanziaria, in vista della mossa che, nella sua testa, chiuderà il «Risiko» dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca.
Tra un appuntamento a Palazzo Chigi (dove dispone di un suo ufficio) e una colazione da Mario a via de´ Fiori (dove pranza con gli ospiti di riguardo) lo spiega direttamente Luigi Bisignani, fiduciario di Gianni Letta e uomo di raccordo della filiera berlusconian-geronziana: «Voi continuate a mettermi in mezzo, ma con questi affari io non c´entro. Detto questo, mi pare che stiamo solo al primo passo: il prossimo sarà la grande fusione… «. La «grande fusione», appunto. Cioè il «merger» Mediobanca-Generali, di cui il Cavaliere di Arcore dichiara di non occuparsi e il Leone di Trieste giura di non sapere nulla. In realtà le cose stanno diversamente. E l´affondamento di Profumo è solo una tappa, in questo percorso di guerra. Unicredit è il primo azionista di Mediobanca, con l´8,6% del capitale. Qualunque operazione su Piazzetta Cuccia non si può fare, se non controlli il capo-azienda di Piazza Cordusio. Anche per questo è partito l´attacco a «Mister Arrogance». Ecco in che modo.
La partita politica.
Come riassume un ministro che si è occupato in questi mesi della vicenda, «il destino di Profumo era segnato da un anno e mezzo, e lui era il primo a saperlo». In parte è così. L´amministratore delegato sapeva di avere ormai troppi nemici, dentro e fuori dalla banca. C´è chi sostiene addirittura che la sua fine sia stata decretata l´8 luglio, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, dove Berlusconi, seduto a fianco di Cesare Geronzi, avrebbe imposto al governatore della Banca d´Italia Draghi uno «scambio»: io ti sostengo per la corsa alla Bce, tu non ti opponi al ribaltone in Unicredit. Ipotesi ardita. Forse fantasiosa. Sta di fatto che il ministro del Tesoro Tremonti, non invitato a quella cena, non ha gradito. E da quel momento, dopo aver bastonato per due anni le banche e i banchieri, ha curiosamente cominciato a difendere Profumo.
E sta di fatto che lo stesso Profumo, prima dell´estate, si è mosso con i libici, per cercare una sponda che gli desse manforte contro gli altri azionisti all´attacco, dalle Fondazioni delle Casse del Nord ai tedeschi dell´Allianz guidati dal presidente di Unicredit Dieter Rampl. Per questo all´inizio di agosto, alla vigilia della partenza per le ferie, lo stesso Profumo è andato in missione ad Arcore, a spiegare a Berlusconi il senso dell´ingresso dei libici nel capitale Unicredit. Dal suo punto di vista, i fondi sovrani del Colonnello Gheddafi dovevano essere il suo «cavaliere bianco». E invece si sono rivelati il «cavallo di Troia», che lo stesso Berlusconi, Bossi e Geronzi – attraverso Palenzona, Biasi e Rampl – hanno usato per sfondare le sue difese.
Il premier, in quell´occasione, ha dato ampie garanzie a Profumo: «Procedi pure con i libici». Ma è stata una pillola avvelenata. Nel frattempo il suo affarista di fiducia per l´area Sud del Mediterraneo, Tarak Ben Ammar, con la benedizione di Geronzi di cui è a sua volta amico personale, ha trattato direttamente con Gheddafi i termini del suo impegno in Unicredit. Un impegno che doveva servire da alibi, per lanciare l´offensiva contro Profumo, ancora una volta all´insegna (pretestuosa) della difesa dell´«italianità» dei campioni nazionali. Il segnale che l´operazione libica stava prendendo una piega diversa da quella immaginata dall´amministratore delegato è arrivato un mese dopo. Il 25 agosto, al meeting di Cl a Rimini, proprio Geronzi si è lasciato andare a una frase sibillina: «Fin dai tempi di Capitalia, i libici sono stati i migliori soci che io abbia mai avuto». È parsa una dichiarazione distensiva verso l´aumento progressivo della partecipazione dei fondi di Tripoli in Unicredit. E invece è stata solo un´altra pillola avvelenata contro Profumo.
Lo si è capito pochi giorni più tardi, quando il 30 agosto il Colonnello è sbarcato a Roma, accolto con tutti gli onori dal presidente del Consiglio e dalla plaudente «business community» italiana. Tra il faccia a faccia a Palazzo Chigi e la cena alla caserma Salvo D´Acquisto, Gheddafi e Berlusconi hanno parlato dell´affare Unicredit. Subito dopo, Geronzi si è recato a Palazzo Grazioli, è ha messo a punto insieme al Cavaliere il piano d´attacco a Profumo. Un piano in tre mosse. Prima mossa: allarme mediatico per la «scalata libica», lanciato ai primi di settembre dalla Lega, che ha costretto la Consob e la Banca d´Italia a chiedere chiarimenti a Profumo. Seconda mossa: attacco mediatico dalla Germania, con la «Suddeutsche Zeitung irritata per «l´arroganza» del ceo. Terza mossa: convocazione di un consiglio straordinario da parte dei «grandi azionisti», per ridiscutere l´operato del management. È esattamente quello che è accaduto in queste tre settimane, e che ha portato l´amministratore delegato alla resa finale.
La vittoria politica di Berlusconi si può riassumere così. In uno scenario che precipita palesemente verso le elezioni anticipate, il premier sistema la partita strategica di Unicredit, si libera di un manager troppo autonomo dal Palazzo, e in un colpo solo rinsalda il suo patto di ferro con Umberto Bossi, sigla una tregua con il governatore di Bankitalia Draghi, e ridimensiona le velleità politiche del suo ministro-antagonista Tremonti. Sembra fantascienza. Ma forse non lo è affatto. Lo prova, paradossalmente, la sobrietà con la quale lo stato maggiore del Carroccio festeggia le dimissioni di Profumo. Lo prova, allo stesso modo, la battaglia non proprio campale che Via Nazionale ha condotto per difendere la governance della prima banca italiana. Lo prova, infine, l´ultima battuta di Tarak, all´uscita della riunione del patto Mediobanca di ieri: «I libici irritati per quello che è successo a Unicredit? Non credo affatto…». Per molte ragioni, la sconfitta di «Mister Arrogance» ha accontentato diverse casematte del potere, politico ed economico.
La partita finanziaria
Se il premier su Unicredit ha giocato dunque la sua partita politica, Geronzi su Profumo ha giocato la sua partita finanziaria. E lo ha fatto con l´obiettivo raccontato da Bisignani. Espugnare la fortezza di Piazza Cordusio, per poi coronare il progetto che si porta dietro dalla scorsa primavera, da quando cioè ha traslocato dal vertice di Mediobanca alla presidenza delle Generali: fondere Piazzetta Cuccia con il Leone di Trieste. E così ridefinire una volta per tutte, a suo vantaggio, gli equilibri del capitalismo italiano. Da maggio scorso, a dispetto di una governance che formalmente assegna allo stesso Geronzi poche deleghe in Generali, lasciando a Mediobanca il controllo delle partecipazioni strategiche come Rcs, Telecom e le banche, il nuovo Cesare del capitalismo italiano ha ingaggiato una guerra senza quartiere con i due «alani» rimasti a Piazzetta Cuccia. Lo ripete lo stesso Bisignani, senza farne mistero: «Con Renato Pagliaro e Alberto Naghel gli scontri sono continui…».
Geronzi si sta smarcando sempre di più, dall´orbita Mediobanca. E lo fa non per lasciare all´Istituto che fu di Enrico Cuccia la sua piena autonomia, ma per raggiungere il risultato contrario: cioè tornare a comandare anche lì. Con l´operazione di «reverse merger» di cui si parla da tempo, e che “Repubblica” ha anticipato nella primavera scorsa, e che ora lo stesso Bisignani conferma. Un´operazione che, secondo fonti di mercato, coinvolgerebbe persino la Mediolanum, di cui il premier vuole disfarsi, perché non sa cosa farne, e che lo stesso Geronzi sarebbe pronto ad accollarsi, per rendergli l´ennesimo favore. Sembra fantascienza, anche questa. Domani fioccheranno smentite. Ma anche fino alla scorsa primavera il banchiere di Marino aveva smentito il suo progetto di trasferirsi in Generali. Sappiamo poi com´è andata a finire.
Al fondo, resta l´immagine di un capitalismo ancora una volta provinciale, asfittico, autoreferenziale, etero-diretto dalla politica. In questa ultima grande partita del potere italiano non ha perso Profumo, uno dei pochi grandi banchieri di caratura internazionale in questo sciagurato paese. Ha perso l´intera, sedicente «élite» della solita, piccola, Italietta.
La Repubblica 22.09.10
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L´ultima battaglia del manager: chi mi caccia lasci le impronte
«Voglio le impronte digitali sulla mia uscita». Così avrebbe detto Alessandro Profumo ai suoi legali quando poco prima del consiglio di amministrazione ha chiesto che a monte delle sue dimissioni ci fosse una votazione palese per mettere nero su bianco l´atto di sfiducia nei suoi confronti.
In pratica Profumo ha chiesto che si manifestasse con un voto ciò che gli era stato riferito poche ore prima, cioè che la maggioranza degli azionisti non lo voleva più nel ruolo di amministratore delegato. E così in effetti è stato. Dopo gli interventi del banchiere centrale libico Farhat Bengdara – che pur difendendo l´operato di Profumo pare abbia ricordato come alla base dell´investimento vi siano state ragioni fondamentali e non legate agli uomini-guida – e della rappresentate dei fondi comuni Lucrezia Reichlin – ancora a favore di Profumo – la mozione è stata messa ai voti ottenendo l´astensione di Salvatore Ligresti e la contrarietà della Reichlin. Solo a quel punto si è arrivati a una bozza di soluzione per l´uscita dell´amministratore delegato che dal primo pomeriggio in poi si era barricato nelle stanze dello studio Bonelli, Erede, Pappalardo a studiare la strategia difensiva e i dettagli dell´accordo monetario. «Sono tranquillo e sereno, mi spiace per tutti gli uomini e le donne che in questi anni hanno lavorato con me. Mi dispiace interrompere questa magnifica avventura ma ogni storia prima o poi deve finire», ha detto Profumo dopo aver posto la firma in calce alle dimissioni da Unicredit.
La sua giornata più lunga era iniziata abbastanza presto in Piazza Cordusio dove si sono ritrovati una parte preponderante dei consiglieri. In un pre-vertice è stato il vicepresidente Fabrizio Palenzona a suggerire la via dell´accordo preliminare in modo da evitare una battaglia in seno al cda che avrebbe nuociuto all´immagine internazionale della banca. «Se è finito un ciclo va bene – avrebbe detto secondo fonti affidabili il banchiere dal passato democristiano – ma senza pretesti sulla Libia o sulla governance. Siamo passati sopra la governance tante di quelle volte». Insomma un tentativo di mediazione in extremis tenuto conto che fin dalla sera prima erano arrivate sollecitazioni dal ministero dell´Economia affinchè venisse accantonata la decisione più traumatica. Tutto sommato non ci sono gli estremi della fretta, facevano notare da via XX Settembre, e non si può lasciare la prima banca italiana in mano ai tedeschi per troppo tempo. Indecisioni della tarda mattinata che si sono sommate ad alcune perplessità da parte di Bankitalia sulla governance transitoria che si sarebbe andata a formare con l´assegnazione di tutte le deleghe al presidente Rampl. Ma la svolta determinate contro Profumo è arrivata dai consiglieri tedeschi, in particolare il presidente della Mercedes Manfred Bishoff è apparso irremovibile alla luce delle interferenze che arrivavano dal mondo politico italiano. Di lì la decisione della maggioranza dei consiglieri, inclusi quindi tutte le fondazioni, più i tedeschi ex Hvb e l´Allianz, di portare avanti un´uscita morbida, di comune accordo, senza scossoni, visto che sui mercati il titolo ieri ha sofferto per tutta la giornata sotto un forte flusso di scambi. E quando Profumo alle 15 è uscito dalla sede della banca sembrava che ormai le cose fossero definite, anche se il mercato per tutto il giorno è stato tenuto all´oscuro della situazione, con non poco disappunto dei fondi di matrice anglosassone. A gettare un po´ di scompiglio arrivava poi la dichiarazione di Salvatore Ligresti, notoriamente poco incline alle esposizioni mediatiche, che si dichiarava favorevole alla stabilità della banca. Un sostegno implicito a Profumo sicuramente dovuto agli accordi di ristrutturazione del debito delle sue società avvenuti durante l´estate per i quali il contributo di Unicredit è stato determinante. Infine il precipitare degli eventi con la necessità di un´espressione palese del consiglio che sancisce un´uscita forse troppo travagliata per un manager che nel corso degli ultimi quindici anni ha costruito passo passo l´Unicredit fino a farlo diventare uno dei primi istituti europei. E al quale non sono stati mossi addebiti particolari, se non un carattere poco conciliante e la scarsa inclinazione ad adottare soluzioni cosiddette di “sistema”.
La Repubblica 22.09.10
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“Ma il Carroccio si rafforza con la conquista delle Fondazioni nasce l´impero del credito padano”, di Ettore Livini
L´era artigianale della Credieuronord – la prima banca della Lega travolta dagli scandali e dai buchi in bilancio e salvata in extremis da Giampiero Fiorani – è un lontano ricordo. I tempi sono cambiati, il Carroccio è l´azionista di riferimento del governo e Umberto Bossi da un po´ ha alzato il tiro: «Devono cacciare i soldi, ci prenderemo le banche del Nord», ha proclamato nel 2003 al Congresso di Assago. Detto, fatto. Via Bellerio ha affidato il dossier “credito” alla sapiente regia del riservatissimo Giancarlo Giorgetti (spalleggiato in molti casi da Giulio Tremonti) e il mondo delle banche – grazie a un´offensiva culminata in questi giorni con l´assalto a testa bassa del sindaco di Verona Flavio Tosi contro Alessandro Profumo – ha iniziato poco alla volta a tingersi di verde.
L´offensiva dei neo-gnomi della finanza padana è stata a tutto campo. «La gente di dice di prendere le banche e noi lo faremo», ha detto il Senatur. E qualche colpo, in attesa di giocarsi la partitissima delle Fondazioni, l´ha già messo a segno. L´astro nascente della finanza leghista Giampiero Fiorani – munifico finanziatore di Aldo Brancher e di Roberto Calderoli – è stato travolto dal pasticciaccio della Popolare di Lodi. Ma al suo posto a tener alta la bandiera di Alberto da Giussano sulle poltronissime del credito nazionale è arrivato Massimo Ponzellini, neo-presidente della ricca Popolare di Milano («l´abbiamo eletto noi», ha ammesso Bossi qualche settimana fa a Ponte di Legno).
Il boccone più appetitoso per la realpolitik bancaria della Lega è però quello delle Fondazioni, gli enti a nomina pubblica in cui sono finite le ex quote delle casse di risparmio diventate da tempo la vera stanza dei bottoni del credito. Il loro appeal? Danno la linea alla gestione delle banche che controllano, distribuiscono i loro profitti sul territorio – un´arma letale in periodi elettorali – e utilizzano il loro immenso patrimonio, parliamo di una cinquantina di miliardi, per investimenti in infrastrutture pubbliche.
Il gioco in questo caso è scoperto: «Quando si rinnoveranno i vertici delle Fondazioni metteremo persone più vicine al popolo – ha promesso il presidente del Veneto Luca Zaia – Se non ci mettiamo i nostri amici ci vanno quelli degli altri ed è pericoloso». Sulla Cariverona guidata da Paolo Biasi, protagonista della crociata anti-Profumo grazie al suo 4,6% in Unicredit, è già ben piantato il vessillo della rosa camuna tanto che l´imprenditore scaligero – le cui aziende di famiglia sono state abbondantemente finanziate dall´istituto di Piazza Cordusio – è stato candidato alla riconferma dal politburo di via Bellerio (la ratifica arriverà a settimane). Zaia ha già messo nel mirino la Cassamarca di Treviso guidata da Dino De Poli, l´ultimo villaggio di Asterix del credito nordestino non ancora espugnato dalle truppe padane, accusata di sponsorizzare troppe mostre invece che occuparsi di un territorio dove si sono persi «75mila posti di lavoro». «Zaia vuol solo dare soldi ai suoi amici», ha risposto gelido De Poli.
In Piemonte l´assalto è affidato al neo-governatore Roberto Cota: «Passeremo a batter cassa dalle Fondazioni», ha annunciato senza mezzi termini ai vertici degli enti pochi giorni dopo l´elezione. A lui spetterà nominare due consiglieri in Compagnia San Paolo, grande azionista di IntesaSanpaolo e la metà della Crt, socia di Unicredit. Un altro giro di giostra l´ha ottenuto invece dal Carroccio Giuseppe Guzzetti, numero uno della potentissima Fondazione Cariplo dove peraltro la Lega è già riuscita a fare sentire il suo peso mettendo uomini in consiglio.
Una volta, diceva Silvio Berlusconi, le banche erano «tutte di sinistra». Oggi, grazie ai soldi dell´amico Gheddafi e all´aiutino del Carroccio, il premier può lanciare il suo attacco finale al fortino Mediobanca-Generali (a Trieste ha già piazzato come testa di ponte Cesare Geronzi, l´unico banchiere di cui è stato socio). Mentre la Lega, zitta-zitta, è a un passo dalla conquista, come promesso da Bossi, delle banche del Nord.
La Repubblica 22.09.10
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“Cattivo odore nelle banche”, di Mario Lavia
Il gioco di parole viene fin troppo facile: senza Profumo l’aria è cambiata completamente. Non manca, nella vicenda già complicata di suo, un tocco di giallo sulle dimissioni. Ma resta la sostanza, ed è inutile fare le anime belle: nel mondo della finanza valgono, anche di più, le leggi della politica, se sei forte ed hai un progetto che va contro i miei interessi, mi organizzo e cerco in tutti i modi di buttarti giù. In questo senso – è stata descritta benissimo ieri nell’editoriale del Sole 24 Ore – la vicenda che ha portato alle difficoltà dell’amministratore delegato di Unicredit, nei suoi termini essenziali, è chiara. Interessi forti, legati a filo doppio con la politica, hanno manovrato con successo per disarcionare dal vertice della più grande banca italiana l’uomo che l’aveva portata all’incontro con l’Europa e il mondo allo scopo di rimetterla sui binari degli interessi del Nord. È la Lega che sgomita per arraffare.
La conclusione è dunque amara: la politica, invece di fornire idee, strumenti e pungoli per il rafforzamento del sistema bancario allunga di nuovo le mani sull’osso. Una certa politica, intendiamoci, quella affamata di soldi con la scusa dei popoli padani, che si salda alla rozza iconoclastia dei dipietristi: eccoli, novelli estremisti di destra e di sinistra, formare una inedita miscela regressiva.
La puzza di bruciato da piazza Cordusio è arrivata presto in piazza San Pietro, dato che nelle stesse ore dell’attacco a Profumo è piombata la tegola sullo Ior di Ettore Gotti-Tedeschi. Nulla sappiamo delle indagini giudiziarie, se non una cosa: che gli accertamenti disposti dalla Banca d’Italia, sulla base di norme più stringenti di un tempo, alla base dell’azione giudiziaria meritano rispetto in primo luogo da parte degli interessati e della Città del Vaticano, che fanno male a spargere insinuazioni sulle procure. Questo è un pessimo copione di un film in bianco e nero dei tempi di Marcinkus e dintorni, un’epoca che speriamo tramontata per sempre. Come quella dello stato-banchiere.
da Europa Quotidiano 22.09.10