Il risultato del voto svedese assume un significato che fa della Svezia il campione dei profondi mutamenti che, da qualche anno, stanno sconvolgendo il panorama politico dell’Europa nordica un tempo immune da tempeste, nevrosi e paure endemicamente diffuse nelle regioni meridionali e orientali del Vecchio Continente. Il significato storico ed emblematico di quanto è emerso dalle urne scandinave va ben al di là di un semplice regolamento o spostamento di conti elettorali da sinistra e destra.
Gli svedesi, assuefatti da quasi un secolo a vivere in un clima di welfare blindato, abbiente, pressoché infinito, hanno determinato col loro voto una sorta d’eutanasia rivoluzionaria: hanno staccato la presa dell’ossigeno al già indebolito partito socialdemocratico, infliggendogli, per la prima volta in ottant’anni, un catastrofico calo di oltre il 4 per cento. Sempre per la prima volta una coalizione moderata di centrodestra, guidata con accortezza dal premier Fredrik Reinfeldt ed elevata alla notevole percentuale del 49,1 (un passo dalla maggioranza assoluta), è riuscita non solo a portare a termine il mandato governativo, ma potrà e dovrà impegnarsi sia pure con qualche spinosa difficoltà nella formazione di un secondo esecutivo.
Nella lineare e neutrale vicenda della Svezia contemporanea, sostanzialmente modellata e condizionata dal predominio socialdemocratico, non era ancora successo dalla fine della guerra che i conservatori crescessero al punto di conquistare due mandati di seguito.
Il primo dato impressionante emerso dalle urne è infatti la conferma di quella che l’Economist, con icasticità clinica, definisce oggi «la strana morte della socialdemocrazia svedese». Basti pensare che solo cinque anni prima il severo Guardian, influente negli ambienti laburisti, vedeva nella Svezia forgiata dai governi di Olof Palme «la migliore delle società che il mondo avesse mai conosciuto». Per anni i socialisti europei, e non solo europei, avevano ammirato e contemplato nella nazione guida della Scandinavia un socialismo democratico austero e generoso insieme, capace di combinare un fisco esigentissimo e una spesa pubblica massiccia con un’economia robusta e un’alta qualità della vita. I Paesi vicini e consimili, Finlandia, Danimarca, Norvegia, perfino l’Olanda, cercavano d’imitarne con successo la lezione che conteneva in sé anche una notevole e talora ardita tolleranza nel settore dei diritti civili, concessi sia ai concittadini sia agli stranieri immigrati.
Dopo l’enigmatico assassinio di Palme nel 1986, mai chiarito fino in fondo, le prime ombre cominciarono a oscurare il paradiso socialdemocratico di Stoccolma. Iniziò a turbarsi la sostanziale stabilità politica, presero ad aprirsi parentesi governative gestite dai conservatori, la Svezia nel 1994 siglò gli accordi per l’ingresso nell’Unione Europea. Con il progressivo allargamento verso l’Europa orientale postcomunista si profilarono, anche per gli svedesi, ormai stanchi del modello socialista, troppo fiscale con i compatrioti e troppo indulgente con gli stranieri, i due problemi insidiosi che l’Europa intera conosce da alcuni anni: la crisi economica combinata con la crisi dell’immigrazione incontrollata. Sul piano economico il governo dei conservatori moderati, eletto nel 2006, capeggiato dal primo ministro Reinfeldt e amministrato dal responsabile delle Finanze Borg, ha saputo affrontare con sagacia e competenza la crisi, senza smantellare le fondamenta del sistema socialdemocratico ma correggendone gli eccessi ideologici e ammorbidendo con interventi liberisti e maggiore elasticità gli spazi operativi dell’industria privata. Il compromesso è riuscito, il prodotto lordo è aumentato, la disoccupazione è calata. Oggi la Svezia occupa un posto d’avanguardia nell’economia mondiale. Il contrasto con la situazione stentata di non pochi Paesi europei è più che notevole: è quasi schiacciante.
Alla fine, anche su questa Svezia economicamente risanata e ristabilizzata incombe lo stesso pericolo che oggi travaglia, assieme alle regioni scandinave, tanti altri Paesi europei. Esso incombe però con forza particolarmente nevrotica a Stoccolma, a Helsinki, a Copenaghen, ad Amsterdam, nelle parti fiamminghe del Belgio: cioè proprio nei vivai delle civiltà nordiche più evolute, fino all’altroieri culturalmente più aperte alla tolleranza e alla convivenza con il diverso, con l’esule, con l’immigrato in cerca di pane e di protezione. Il retaggio di tolleranza, di carità umana, depositato in quelle gelide terre settentrionali dal protestantesimo e dalle socialdemocrazie, si è come rovesciato nella grande paura dei diversi che oggi vagano e premono a tutte le porte del continente. Il cortocircuito prodotto dalla paura per la calata in massa dei dissimili, paura ancestrale, che per facile retorica definiamo troppo sbrigativamente «xenofobia», sta fomentando perfino nella civilissima Svezia una contropartita politica. Qui, difatti, si è verificata un’ennesima «prima volta» con la rottura dello sbarramento elettorale del 4 per cento e l’entrata imbarazzante in scena dell’estrema destra del giovanissimo Jimmie Akesson. Esorcizzati non solo dai perdenti socialdemocratici di Mona Sahlin, ma anche dal vincente conservatore Reinfeldt, i «Democratici svedesi» capitanati da Akesson hanno raggiunto, pare, più del 6,5 percento dei voti al grido «restituiamo la Svezia alla Svezia». La situazione è poco piacevole soprattutto per Reinfeldt che, dopo aver annunciato che non toccherà Akesson «neppure con le pinze», potrebbe vedersi costretto a trattare una scandalosa coalizione proprio con l’intoccabile. La vittoria del centrodestra moderato è stata purtroppo incompleta: alla coalizione manca una manciata di voti per formare un esecutivo da soli.
Non sappiamo quello che potrà succedere a giorni a Stoccolma. Sappiamo invece che la paura sta dilagando per il Nord. In Finlandia stanno correndo forte i cosiddetti «Veri finlandesi» che esaltano la «dignità delle tradizioni silvane». In Danimarca sta crescendo il «Partito del popolo» che basa la sua campagna sul «pericolo immigrati». In Olanda il «Partito della libertà» di Geert Wilders ha già 24 seggi in Parlamento e intrattiene contatti sempre più stretti con i consanguinei nazionalisti fiamminghi di Vlaams Belang. Tutti, compresi i nazionalradicali di Budapest e di Bucarest, si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam per festeggiare l’ormai leggendario Wilders.
Si vede, insomma, che il caso svedese è tutt’altro che isolato. L’Europa si è fatta più piccola, mentre la paura, che andrebbe studiata e non solo respinta con anemica «correttezza politica», si va facendo sempre più grande e più ubiqua. Non basta condannare alla rinfusa i «cattivi». Bisognerebbe anche sforzarsi di spiegare come e capire perché sono diventati tali dal Baltico fino al Danubio.
La Stampa 21.09.10
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“Europa, lo spettro dell’ultradestra”, di MARCO ZATTERIN
Prima il terrorismo, poi la paura dell’immigrato e infine la crisi economica che ha incrinato la fiducia. Alla fine del primo decennio del nuovo secolo l’Europa è agitata da una deriva nazionalista che cavalca le tensioni e complica i bioritmi della politica. Il primo effetto del continente che piega a destra è la precarizzazione delle coalizioni, il secondo è il diffondersi dell’illusione che alzando la voce si risolvano i problemi in fretta. Leader scaltri hanno capito che nel breve periodo può funzionare. Nel lungo non si sa, non ancora.
Il populismo cresce nell’intolleranza e nella paura, nella liberale Olanda come nel rigoroso Belgio e ora anche in Svezia, patria socialdemocratica di un Welfare per anni invidiato. In Ungheria, Slovacchia e Romania, partiti dall’anima fascista raccolgono consensi insperati aggrappandosi ad antichi ideali ed esacerbando i confronti con l’«altro», in genere le minoranze, gitani o ebrei non pare far differenza. Ci riescono nel nome della «Libertà» a cui dedicano i loro partiti, come fece Jörg Haider, che nel 1999 convinse il 25% dell’Austria a votarlo, e come è riuscita a Geert Wilders, il leader antislamico dei Paesi Bassi che cavalca la «minaccia» dello straniero e la delusione verso partiti tradizionali che tiene in scacco dal voto di giugno.
In Francia, nel momento in cui ha visto cadere i consensi, il presidente Nicolas Sarkozy ha lanciato l’offensiva contro la «gent du voyage», termine con cui ha mascherato l’intenzione di colpire i rom, irregolari da cui una ampia frangia della popolazione si sente minacciata. Per lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, che vive in Francia da anni, l’Eliseo ha «usato le espulsioni per sedurre l’estrema destra, dunque per ragioni di consenso e di conservazione del potere». Nell’attimo della difficoltà, Sarkozy ha riprodotto lo schema delle Destre, ha cercato un nemico e promesso di sconfiggerlo. Capita anche in Germania, dove dalla Cdu di Angela Merkel è in arrivo una componente superconservatrice, animata da Erika Steinbach, presidente dell’Associazione dei tedeschi espulsi dall’Europa centrale dopo l’ultima guerra.
Il Belgio ha dimostrato che alla lunga l’estremismo non paga, lo provano i duri fiamminghi del Vlaams Belang, battuti dal N-Va di Bart De Wever, che è riuscito a persuadere parte degli elettori delle Fiandre di «essere un moderato». Anche negando il parallelo con la Lega: «Loro sono di destra», giura. «Ciò che accomuna diversi partiti di estrema destra, spesso caratterizzati da politiche localistiche, è il forte antieuropeismo», spiega Rosa Balfour, Senior policy analist dell’European Policy Centre. In effetti, Bruxelles è la nemesi del nazionalismo, i suoi valori negano xenofobia, odio razziale e discriminazioni, ma non tolgono che il vecchio continente sia una polveriera di minoranze in cerca di futuro, come gli ungheresi che vivono in Romania e Slovacchia. L’Ue «deve contraddire quanti la accusano di essere agli ordini di un progetto di omologazione delle culture e delle identità su scala mondiale», suggerisce Magali Balent, della Fondazione Robert Schuman. I risultati dicono che, sinora, non è riuscita a farlo in modo concreto.
La Stampa 21.09.10