Quando un crimine colpisce tutta la società, perché minaccia l’ordine naturale delle cose, deve essere la comunità intera ad eseguire la sentenza. È l’antica brutale logica della lapidazione: non un boia solo, ma un’esecuzione collettiva. Questa punizione vecchia come il mondo (nella Bibbia vengono indicati diciotto reati da punire con la morte a sassate) non è limitata al solo Iran. Degli altri paesi si sente parlar poco: sono nazioni che non fanno notizia, perché troppo lontane o – in qualche caso – perché alleate dell’occidente.
Amnesty International elenca almeno nove paesi nei quali la lapidazione è legale. Ad esempio i “civilissimi” Emirati Arabi, che nei grattacieli di Dubai ospitano uno dei centri della finanza globale. Statistiche certe però non ne esistono. La questione riaffiora sporadicamente davanti agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, in modo più o meno casuale. Nell’estate del 2009 i quotidiani inglesi avevano raccontato della moglie di un principe saudita che era riuscita a fuggire a Londra dopo essere rimasta incinta del proprio amante. La donna aveva fatto richiesta di asilo politico, per evitare la sentenza di lapidazione che le sarebbe spettata in patria. La richiesta, peraltro, aveva provocato un certo imbarazzo nelle autorità britanniche: l’Arabia Saudita rimane un paese amico e un interlocutore importante in funzione anti-iraniana.
Secondo gli studi delle associazioni per i diritti umani, la morte per lapidazione si è diffusa recentemente in nuove aree, con l’accentuarsi del fenomeno dell’islam radicale nel clima da “scontro di civiltà”. Alcune province a maggioranza musulmana della Nigeria e dell’Indonesia (il più grande paese islamico del mondo) hanno reintrodotto la pena – rispettivamente – nel 2002 e nel 2009. In Somalia due anni fa si è registrato un caso anche a Mogadiscio, che formalmente è sotto il controllo delle forze governative e non delle corti islamiche. Nel 2007 il video di una lapidazione fece scalpore su YouTube: registrava l’uccisione di una ragazza diciassettenne nel Kurdistan iracheno, dove l’influenza del fondamentalismo islamico si è rafforzata dopo la “liberazione” dal regime sunnita di Saddam Hussein.
Negli ultimi mesi la situazione è andata peggiorando anche nella regione tra Afghanistan e Pakistan: il 16 agosto scorso una coppia di adulteri è stata lapidata a Kunduz, villaggio sotto controllo talebano a nord di Kabul. Secondo Amnesty, è il primo caso confermato di lapidazione da quando il regime fondamentalista è stato rovesciato nel 2001 (altri casi però erano stati registrati subito oltre il confine, nelle regioni pachistane amministrate dai capi-tribù locali). Il presidente afghano Hamid Karzai ha subito condannato l’accaduto, che però potrebbe avere importanti ricadute politiche. Il consiglio degli Ulema, la più alta autorità religiosa del paese, ha chiesto che sia il governo stesso ad applicare in modo severo le punizioni corporali, come gesto di “distensione” nei confronti dei guerriglieri. Una pressione che Karzai non potrà ignorare, nel corso delle difficili trattative per “reintegrare” i talebani moderati.
Nel caos afghano, la popolazione civile si affida agli islamisti per l’amministrazione della giustizia. I loro metodi sono estremi ma certi. E la lapidazione, oltre a coinvolgere l’intera comunità nella punizione dei colpevoli, lascia “pulite” le mani degli assassini. Come nella fucilazione. O come nelle più moderne iniezioni letali, in cui a premere contemporaneamente il pulsante sono tre boia distinti. Ché non si sappia mai chi è stato a compiere materialmente l’omicidio legalizzato.
Da Europa Quotidiano 07.09.10