Classi come nuovi ghetti e il più grande licenziamento del settore: ecco l’esito della “riforma”. Dico a voi, genitori, nonni, zii, ragazzi. Cittadini. Lo so, la lettera è “vetero”, come ci hanno fatto credere di idee, principi, valori su cui vorrei riflettere. Svenduti dall’aggressività neoliberista e dal macabro progetto culturale di chi ci governa: come la lettera, roba d’altri tempi. Comodo per plasmare menti e coscienze al pensiero unico: sbarazzare il campo da ogni ostacolo. E far pensare che alcune radici della Repubblica puzzinodi stantio. La Costituzione, ad esempio. Che va invece tutelata da retorico buonismo, inerzia e manipolazione, rivendicando, con orgoglio e passione, il mandato attribuito a noi insegnanti dalla Carta: formare cittadini consapevoli. È sempre più difficile, da questo non-luogo a cui hanno ridotto la scuola. Fuori dai cancelli, i ragazzi si trovano in un mondo che li sollecita esattamente nella direzione opposta: il re per una notte, il tronista, il famoso, lo spiato che ammicca alla telecamera. Maschere (tragiche) dell’ossessione collettiva, prese in prestito dalla videocrazia per sostanziare la realtà.
La scuola è di tutti, ci hanno insegnato. Scuola, sanità e giustizia: ce l’hanno ripetuto. Allora perché in prima pagina solo a colpi di precari in mutande sui tetti o in sciopero della fame? Perché non bastano la disillusione, la sfiducia nelle istituzioni e nel futuro di tanti quarantenni ai quali un ministro si può permettere di dire: solidarietà, ma voi pagate per tutti? Pagate il conto al sistema che vi ha creato e sfruttato per anni. Io, intanto, appoggio Marchionne. E dismetto qualsiasi responsabilità rispetto all’illegittimità delle procedure che stiamo assumendo e alla crisi sociale innescata dal più grande licenziamento di massa della storia della scuola. Parole in libertà, suggestive e mediaticamente efficaci, per solleticare il bisogno di certezze di chi si è smarrito. O non si è mai trovato. Alle quali non corrisponde in nessun modo alcuna realtà. Parla rivolgendosi a voi, audience, che fate share. A molti di noi non si rivolge più, se non per bacchettarci, darci dei fannulloni, degli incompetenti, degli assenteisti; minacciarci, se “facciamo politica”: TremonBrunetta-pilotata, come la giovane Ambra da Boncompagni. Non produce pensiero originale, questo ministro della Repubblica. I suoi slogan sono sintesi market oriented di ciò che hanno deciso altrove. Lei ha il compito di metterci la faccia.
E lo fa in maniera impudica, perché inconsapevole: millantando potenziamenti di materie in una scuola superiore in cui si taglia tutto, dagli orari alla carta igienica; di legalità, mentre viola norme democratiche per portare a casa la “riforma” (il taglio di 8 miliardi) che il ministro dell’Economia le ha commissionato; di diritti, costringendo bambini e ragazzi in scuole non bonificate da Eternit, in cui vengono stipate aule a dispetto di qualsiasi norma di sicurezza, in cui viene calpestata, elusa, umiliata la legge per il sostegno alla diversabilità, che tutta l’Europa ci invidia. Ma di cui incultura politica e insensibilità sociale sviliscono la portata. Vi parla di uguaglianza, restaurando una scuola di classe, che divarichi destini e immobilizzi origini sociali. Creando ghetti sempre più segregati, per i figli di un dio minore: di colore, di religione, di nascita differenti dai futuri quadri, immaginati in un triste progetto di società; non troppo colti, purché provvisti di potere d’acquisto, consumatori acritici, prodotto della dismissione della grande idea di una scuola inclusiva ed emancipante che ha animato le intenzioni dei costituenti.
D’accordo, potrebbe non toccare ai nostri figli, ai nostri nipoti, ai nostri alunni: noi saremo abbastanza forti da tutelarli. Ma ai miei Lorenzo e Margherita, che iniziano rispettivamente la scuola secondaria di II e di I grado proprio nell’anno 0 della “riforma epocale” e a tutti i miei alunni, anche i meno sensibili, non mi stancherò di cercare di far capire che la democrazia si basa sulla difesa dei diritti collettivi e dell’interesse generale. E che il privilegio di una buona partenza non esenta dal dovere della partecipazione e dalla testimonianza dell’indignazione. Perché silenzio è uguale a morte.
Il Fatto quotidiano 03.09.10
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“Forse c’è un’altra strada” di Michele Boldrin
La nuova sceneggiata è servita. Da un lato i precari della scuola che fanno lo sciopero della fame e un sindacato che vuole solo mantenere lo status quo. Dall’altra un ministro che si vanta dei propri tagli senza capire (i suoi consiglieri non gliel’hanno evidentemente spiegato) che il problema è come è organizzata e gestita la scuola italiana. In mezzo i media che, anziché documentare le colpe d’una parte e dell’altra (e la necessità di una svolta), alimentano la polemica. Ulteriore fotografia, se ce ne fosse bisogno, di una classe dirigente uniformemente inetta.
È chiaro a chiunque non abbia fette di salame ideologico sugli occhi che l’ennesima apertura caotica dell’anno scolastico è il frutto di scelte miopi e accomodanti di questo governo e di molti che l’hanno preceduto. Oltre che di politiche sindacali improntate al più bieco corporativismo e alla massimizzazione della spesa, invece che alla sua efficienza e produttività. Così come è chiaro (fuorché alla Gelmini e a Tremonti) che la soluzione non consiste in miopi tagli orizzontali, ed è chiaro (fuorché ai sindacati) anche che non è spendere di più e impedire i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro.
Eppure, se l’obiettivo fosse far funzionare meglio la scuola italiana, il problema si potrebbe risolvere. Ecco gli ingredienti in ordine sparso. Decentralizzare per davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale lasciando completa autonomia contrattuale ai provveditorati. Trasformare ogni scuola in una cooperativa d’insegnanti a cui lo Stato dà in concessione a tempo indeterminato (a un prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche. Chi assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o licenziare, lo decide la cooperativa. O, al massimo, il provveditore. E che il migliore, se vuole, venda i propri servizi a un prezzo (regolato) maggiore. Gli insegnanti di qualità costano, come i luminari della medicina.
E i soldi? Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta. Ciò che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione, fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la sua gestione diretta. Che, come l’esperienza dimostra, porta spesso a inefficienze e assurdità. E i programmi? E la qualità dell’insegnamento? Ci pensa il ministero. Programmi minimi e uniformi a livello nazionale, con aggiunte volontarie locali e qualità dell’insegnamento testata con esami nazionali (basta con regioni dove le lodi si regalano). A questo si dovrebbe dedicare il ministero che, con questa riforma federalista, si svuoterebbe di migliaia di inutili funzionari, liberando risorse per chi l’insegnamento lo produce davvero. Ossia gli insegnanti capaci e volenterosi, in collaborazione con alunni e famiglie.
*Washington University in Saint Louis
Il Fatto Quotidiano 03.09.10