La vicenda Fiat parla anche al mondo della scuola. Lo dimostra l’alto livello della discussione che si è aperta su Scuolaoggi e, in qualche modo, anche l’intervento del Ministro dell’Istruzione. Quest’ultimo non ha perso l’occasione per insultare la Cgil (vuole mettere al rogo tutti gli imprenditori), prendere la posizione più estrema (ha ragione la Fiat a non eseguire il reintegro degli operai licenziati), bypassare le esigenze della logica (le sentenza della magistratura vanno comunque rispettate).
Secondo Gelmini gli interessi delle aziende vengono prima dei diritti dei lavoratori e delle istituzioni della Repubblica perché “le aziende sono luogo di creazione e distribuzione della ricchezza”. Il Ministro sposa integralmente la tesi del top manager Fiat: l’interesse dell’impresa è l’unico valore in campo, tutto il resto deve essere ad esso subordinato. Il lavoro, in questa logica, è solo una variabile dipendente, totalmente assimilata nel capitale, “subordinata fino al centesimo di secondo”, come scrive Franco De Anna, al processo produttivo, senza identità e autonomia.
Se il piano Fiat per l’Italia facesse scuola, allora tutto quanto detto e scritto fino ad oggi sulla strategia europea di Lisbona e sulla società e l’economia della conoscenza sarebbe effettivamente solo vuota predicazione e, dal punto di vista economico, sarebbero anche inutili gli sforzi per rendere più inclusivi i sistemi formativi (obiettivi di Lisbona) al fine di portare tutti ai più alti livelli di istruzione e formazione.
La convinzione che il sistema produttivo necessiti solo di una parte limitata della forza lavoro dotata di alti livelli di istruzione è alla base delle scelte di destrutturazione del sistema pubblico praticata dai tagli contenuti nelle manovre economiche del governo. In alcuni casi i ministri lo affermano anche esplicitamente, come ad esempio nel Piano Italia 2020 a firma Gelmini e Sacconi, in cui si sostiene che “l’iscrizione di massa dei nostri diplomati alla università non risponde alle reali esigenze del mondo del lavoro”.
In effetti il sistema produttivo italiano odierno esprime una domanda di conoscenza molto limitata. Largamente composto da piccole imprese con specializzazioni produttive tradizionali, si colloca pesantemente sotto la media europea per gli investimenti in ricerca e innovazione, per le iniziative di formazione dei lavoratori, per l’assunzione di personale qualificato e laureato. Questo è uno dei principali limiti strutturali – se non il principale – che hanno frenato la crescita economica del paese negli ultimi vent’anni e che, se non affrontati, continueranno ad ostacolarla nel futuro.
Ma le esigenze specifiche di una multinazionale come la Fiat, che accetta di produrre ancora in Italia solo a determinate condizioni di produttività, non falsificano il paradigma della società della conoscenza e della strategia di Lisbona: nell’economia globale i sistemi economici dei paesi sviluppati sono competitivi solo se si basano sull’innovazione e la qualità dei prodotti (a loro volta dipendenti da ricerca, istruzione e formazione), perché nella competizione basata sui costi vincono i paesi in via di sviluppo. Il problema posto da Fiat può essere affrontato come si è fatto in molti altri settori, senza rinunciare ai diritti dei lavoratori, attraverso soluzioni contrattualmente condivise per ottenere gli obiettivi di efficienza e produttività previsti dal progetto Fabbrica Italia. Per questo non può che lasciare perplessi nell’intervento di Marchionne a Rimini la riduzione del grande cambiamento auspicato per il paese ad un problema di disciplina aziendale e di relazioni sindacali. Non una parola è stata dedicata al ritardo italiano nella costruzione della società e dell’economia della conoscenza che frena lo sviluppo, ostacola il diffondersi delle produzioni innovative e ad alto valore aggiunto, limita la capacità attrattiva degli investimenti. Al punto che per investire in Italia Marchionne chiede ai lavoratori di rinunciare ai loro diritti fondamentali e, tra l’altro, assegna alla produzione in territorio italiano la linea della panda, una produzione con poco valore aggiunto, mentre quella della L0, con più margini, sarà prodotta in Serbia.
Se il top manager della Fiat non si fosse limitato a ridurre il grande cambiamento che serve al paese alla soluzione dei problemi specifici dell’azienda che amministra, avrebbe dovuto affrontare, come spesso fa il Governatore della Banca d’Italia Draghi, i problemi posti dall’interazione negativa tra un sistema produttivo arretrato e a rischio di declino con sistemi della formazione e della ricerca insufficienti per efficacia ed ora ulteriormente impoveriti dai tagli del governo.
La battaglia sulla diffusione delle competenze, come ha scritto Tiriticco, non si vince solo sul versante istruzione, occorre che anche le strutture economiche portanti le richiedano nei concreti rapporti di produzione. Riconoscere che la domanda di conoscenza proveniente dal sistema economico è decisiva per promuovere l’innalzamento dei livelli di istruzione, non deve, però, far dimenticare che la diffusione di più alti livelli di sapere, oltre a fondare l’esercizio della cittadinanza attiva, offre, come dimostrano ormai numerose ricerche, anche un contributo sostanziale alla coesione sociale e alla sostenibilità dei sistemi di welfare sanitario (politiche della prevenzione) e previdenziale (politiche dell’invecchiamento attivo).
In realtà il lavoro, nei sistemi produttivi che puntano sull’innovazione e la qualità, cresce in competenze, responsabilità e autonomia e pertanto esige sistemi formativi inclusivi e di qualità al fine di sostenere lo sviluppo economico e l’occupabilità delle persone. Non si tratta del solito mantra sulla società della conoscenza, ma sono i dati sull’occupazione in Europa che lo dimostrano. L’agenzia europea Cedefop ha diffuso qualche mese fa i risultati di una ricerca sul mix delle competenze che verranno richieste in Europa entro il 2020, dal quale risulta che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro saranno ad alta intensità di conoscenze e di competenze. Secondo la previsione Cedefop la percentuale dei posti di lavoro altamente qualificati passerà dal 29% dei 2010 al 35% del 2020, mentre il numero di posti che impiegano personale scarsamente qualificato scenderà dal 20% al 15%. Oggi in Italia il 39% di chi lavora possiede al massimo la terza media e solo il 32% delle imprese svolge in un anno attività di formazione dei lavoratori a fronte del 60% della media europea. È evidente che per stare al passo della media dei paesi europei all’Italia serve una svolta radicale nelle politiche economiche e sociali: sostegno alle imprese che puntano su innovazione e qualità, valorizzazione del lavoro, investimenti e processi di qualificazione per i sistemi della formazione e delle ricerca.
Il patto sociale di cui ha parlato Marchionne avrebbe dovuto mettere al centro questi temi, non avrebbe avuto il consenso della Gelmini, ma avrebbe evitato di apparire come il sostenitore di una linea politica secondo la quale la modernizzazione del paese si risolve nell’ulteriore peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
da ScuolaOggi 30.08.10