economia, lavoro

"Il Pd: «Fiat, bene i patti ma senza spaccare il Paese»", di Giuseppe Vespo

«Non dividiamo l’Italia». «Non dividere il sindacato», semmai prova a batterlo, rimproverano a Marchionne due voci autorevoli e distanti tra loro, come quelle di Pier Luigi Bersani e Cesare Romiti: l’intervento del numero uno del Lingotto al meeting ciellino di Rimini continua a far discutere. Anche perché dietro il braccio di ferro tra la Fiat e la Fiom si gioca il futuro delle relazioni industriali del Paese. Per il leader del Partito democratico, la richiesta avanzata da Marchionne di unnuovo patto sociale tra lavoratori, imprese e Stato, va affrontata evitando – come sta avvenendo – di «spaccare il mondo del lavoro». Il cambiamento delle relazioni industriali non può avvenire «abbattendo completamente la contrattazione nazionale » o stabilendo che «in ogni campanile d’Italia ci si fa i propri diritti ». «Questo no», ha spiegato Bersani alla festa delPd di Ravenna, facendo riferimento alle condizione poste da Fiat per portare la Panda a Pomigliano e all’ipotesi di una fuoriscita del Lingotto da Federmeccanica e dai vincoli del contratto nazionale delle tute blu. «Se togliamo un po’ di diritti non so dove andiamo a finire». Si può invece «rendere più essenziale la parte centrale della contrattazione e dare più spazio a quella aziendale ». Anche per l’ex ad di Fiat Cesare Romiti la via da seguire non è quella della spaccatura tra i sindacati. «Èun errore grave – dice l’ex manager in un’intervista al Corriere – Il rapporto tra azienda e sindacato è dialettico. È sbagliato rinunciarsi a parlare, cercare accordi separati, lasciar fuori qualcuno». LOTTA DI CLASSE Di diverso avviso il ministro del Welfare Sacconi, che vede nella fine della lotta di classe – auspicata da Marchionne in favore del nuovo “patto” – «il superamento della contrapposizione ideologica fra capitale e lavoro».Un processo promosso dal governo, che ha attivato untavolo ministeriale sulla partecipazione degli operai alla vita dell’impresa. La Cgil, con il segretario generale vicario Susanna Camusso, si è detta disponibile ad un«patto sulla produttività che non tocchi i diritti». La Fiom non è disposta ad accogliere deroghe al contratto nazionale, così come richiesto ancora ieri dalla Fim di Giuseppe Farina che la invita ad aferire «all’accordo di Pomigliano e a partecipare al confronto». La risposta del leader tute blu Cgil Maurizio Landini è secca: «Se Fiat e Federmeccanica andranno avanti con le deroghe dovranno fare i conti con il vecchio contratto (firmato da tutti nel 2008, ndr), che resta in vigore fino al 2011. Quell’accordo può essere sostituito solo da un nuovo contratto firmato da tutti i soggetti». Se ne discuterà nelle prossime settimane. Intanto a Melfi domani torneranno a manifestare i tre operai licenziati, e reintegrati dal giudice del lavoro, che la Fiat non vuole far rientrare in fabbrica. Mentre a Mirafiori gli operai resteranno in cig fino al sei settembre. Il calo di mercato (-27%) pesa sull’attività della fabbrica, già orfana della nuova monovolume che avrebbe dovuto darle un futuro e che, invece, il Lingotto produrrà in Serbia.

da L’Unità

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“Le regole di Marchionne e l’etica di Berlinguer”, di EUGENIO SCALFARI

IL MARCHIONNE intervenuto a Rimini al meeting di Comunione e liberazione non ha detto grandi novità rispetto al Marchionne di Pomigliano. Del resto da allora non è accaduto nulla di rilevante che non fosse già stato previsto: il mercato automobilistico mondiale continua a perder colpi in Occidente (e a guadagnarne nei grandi mercati dei paesi emergenti); la Fiat è una delle imprese più penalizzate sia sul mercato italiano sia su quello europeo; la stessa Fiat tuttavia vende in Italia circa il 40 per cento del suo prodotto e quindi in Italia ci deve restare, che lo voglia oppure no, ed anche le più massicce de-localizzazioni non possono cancellare con un tratto di penna tutti gli stabilimenti italiani e la manodopera che ci lavora.

Questa situazione è nota da un pezzo, fin da quando due anni fa Marchionne lanciò l’operazione Chrysler con l’accordo dei suoi azionisti, del presidente americano Barack Obama e dei sindacati di Detroit. Non tutti i commentatori capirono che non era la Fiat a conquistare la Chrysler ma viceversa: la Fiat si aggrappava alla Chrysler, anch’essa in stato pre-agonico, per fare di due debolezze una forza. Questo era il programma di Marchionne che d’altra parte fu onesto nell’ammettere questa verità.

Previde anche – e lo disse – che la Fiat avrebbe scorporato la produzione automobilistica dal resto del gruppo costituendo una nuova società, cosa che è avvenuta secondo le previsioni. Da allora non ci sono state svolte nuove: Marchionne aveva già dichiarato che lui operava in una nuova era di economia globalizzata; usò anche l’immagine “dopo Cristo” orami diventata famosa.

Di nuovo c’è stata la traduzione nei fatti di questo programma, a Pomigliano, a Termini Imerese, a Melfi e in parte a Mirafiori. Il referendum a Pomigliano, la nuova società diventata proprietaria di quello stabilimento, la resistenza della Fiom-Cgil, lo sciopero di Melfi, i tre licenziati, il ricorso al Tar e il loro reintegro, la decisione della Fiat di non riammetterli al lavoro in attesa del secondo grado di giudizio, l’intervento del presidente Napolitano e il suo auspicio di superare l’incidente con spirito di equità in attesa della sentenza definitiva. Infine il Marchionne di Rimini.

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A Rimini l’amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi “mantra”.

1. L’economia globalizzata impone che l’aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent’anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti.

2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi.

3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività.

4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti.
5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata.

6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall’aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate.

7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di “welfare” appropriati alle nuove regole.

Alcuni di questi principi sono ragionevoli e meritano di essere discussi. Altri hanno un’ispirazione profondamente reazionaria. Inoltre in questo ragionamento colpiscono alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non riguardano il suo “campo di gioco” ma negherebbe con ciò l’evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato, è un contesto globale ed implica in prima fila il tema dei diritti e dei doveri.

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Bisogna riconoscere – e per quanto mi riguarda l’ho scritto più volte – che l’economia globale comporta un trasferimento di benessere dall’area opulenta all’area emergente e povera. Si potrà gradualizzare entro certi limiti questo processo, ma è del tutto inutile cercare di arrestarlo. Il trasferimento può avvenire in vari modi. Uno di essi è l’immigrazione dall’area povera all’area opulenta, un altro è la de-localizzazione della produzione e del capitale in senso contrario, un altro ancora consiste nella ricerca di analoghi trasferimenti di benessere sociale all’interno dell’area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri, accompagnati da ritmi di produttività più intensi nelle aree povere affinché la loro dinamica sociale accorci le distanze con le aree ricche.

Siamo cioè – e non certo per libera scelta – di fronte ad un gigantesco riassetto sociale di dimensioni planetarie, nel corso del quale bisognerà tenere ben ferma la barra sui due diritti fondamentali: la libertà e l’eguaglianza. Il riassetto sociale è infatti di tali proporzioni da mettere a rischio quei due diritti. Può cioè dar luogo a forme di governo autoritarie nell’illusione che solo in quel modo sia possibile governare i processi sociali; e può anche dar luogo a discriminazioni inaccettabili sul piano dell’eguaglianza. Purtroppo in Italia si rischia di caricare gli oneri del riassetto sociale sulle categorie più deboli e di ferire in tal modo sia l’eguaglianza sia la libertà.

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Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica. L’intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali e non ci tornerò sopra, ma c’è un punto che qui m’interessa cogliere: quando il ministro dell’Economia ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d’una nuova politica economica. È vero, Berlinguer vide con trent’anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto.

Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d’una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione. Il richiamo di Tremonti è stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla società italiana.

Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo. Questo aspetto del problema è stato oscurato dal nostro ministro dell’Economia ed è invece l’aspetto fondamentale. Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all’interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto.
Questo è il punto che manca all’analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l’ha omesso la Marcegaglia. L’intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie. Né è accettabile che una così plateale omissione sia giustificata con l’argomento che l’aspetto politico non riguarda gli operatori economici e gli imprenditori.

Grave errore: l’economia politica ha come tema centrale proprio quello dell’etica, cioè dei diritti e dei doveri, della felicità e dell’infelicità, della giustizia e del privilegio. Una Comunità cattolica dovrebbe mettere al centro delle sue riflessioni questo tema e porlo ai suoi ospiti. Se non lo fa, diventa una lobby come in effetti Cl è da tempo diventata.

La Repubblica 29.08.10