Agevolato l’esame delle domande di autorizzazione paesaggistica. E alla fine è arrivata la deregulation. Annunciata dallo scorso autunno, osteggiata da chi teme il meccanismo che di fatto lega le soprintendenze al rispetto di tempi davvero corti, favorita da chi vuole sciogliere lacci e lacciuoli ai piccoli interventi, il 10 settembre entrerà in vigore. Il Dpr 139/2010, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 26 agosto scorso, è il risultato di queste spinte e controspinte, anche se il testo era definitivo già da mesi.
La sostanza è quella di un termine ultimativo di 60 giorni per ottenere una risposta definitiva dalla pubblica amministrazione interessata (il più delle volte il comune), all’interno dei quali è contenuto anche il tempo per il parere della soprintendenza. Si tratta di termini molto stretti e che prevedono tra l’altro il salto di uno dei passaggi più criticati: quello della conferenza di servizi obbligatoria, che veniva accusata di essere all’origine dei rallentamenti in quanto, al momento della convocazione, mancavano spesso dei componenti.
La norma, comunque, è di enorme rilevanza perché sono milioni le unità immobiliari interessate dalla semplificazione: soggetti ad autorizzazione paesaggistica sono infatti, tra l’altro, tutti gli interventi nelle aree interessate dai piani paesistici, cioè almeno un terzo del territorio italiano.
Secondo Fulvio Irace, docente di storia dell’architettura contemporanea al politecnico di Milano, la norma va accolta con cautela, ma non negativamente: «Vorrei insistere – afferma – sul fatto che questa legge nasce dalla presa di consapevolezza che esistono trasformazioni minute degli edifici che sono appesantite dalla burocrazia. Anche sostituire un mattone scheggiato è un’operazione complessa: sotto questo punto di vista l’idea di snellire le pratiche è buona, anche per consentire ai tecnici, che sono pochi, di concentrarsi sui casi più complessi». È inutile, prosegue Irace, prescrivere norme se non ci sono persone in grado di di esercitare il controllo. «Il pericolo è semmai – conclude – la discrezionalità, i cui margini andrebbero ridotti al massimo».
Più preoccupato appare Paolo Pileri, docente di ingegneria del territorio al politecnico di Milano: «Bisogna capire questo decreto da che parte sta. Il nostro è un Bel Paese perché ha un bel paesaggio o perché bisogna semplificare a tutti i costi? Mi sembra, insomma, che la nuova norma tuteli più chi deve chiedere l’autorizzazione che l’amministrazione. Del resto vediamo già adesso i risultati con le autorizzazioni “non semplificate”».
L’esempio dei rischi cui il Dpr espone il territorio è già presente nel territorio alpino. Si tratta di una zona molto vasta, automaticamente tutelata dal Codice dei beni culturali. Qui oltre il 40% del territorio è costituito da comuni sotto i mille abitanti, con una persona (se va bene) addetta al controllo del territorio e al settore urbanistico. Ma i nuovi tempi di attivazione dei comuni per rispondere alle istanze semplificate (si veda l’altro articolo nella pagina) impongono sforzi molto superiori alle possibilità delle forze in campo.
«Ci sarà inevitabilmente – prosegue Pileri – un depotenziamento della pubblica amministrazione nel rispondere in modo positivo alle domande. Stesso discorso per i parchi. Queste semplificazioni si riducono, quindi, a uno sveltimento senza entrare nei particolari di merito. Anche le commissioni paesaggistiche provinciali rischiano di essere composte da persone poco qualificate, a causa della gratuità della funzione, quando l’esame di una pratica può, tranquillamente, portare via una mezza giornata. Ma se il paesaggio è un bene importante per questo Paese, allora dovremmo investire risorse».
Del resto, anche se qualificati come interventi minori, alcun opere sono problematiche: «Serbatoi di gpl, nuove finestre, modifiche alle falde, uso di altri materiali rispetto a quelli originali per i tetti, sono tutte opere che modificano tanto il paesaggio. Non solo. È avvilente per chi invece si sta adoperando per conservare il paesaggio, perché il vicino invece potrà fare tutti questi interventi» conclude Pileri.
Più prosaicamente, è evidente che nella grande maggioranza dei casi la soprintendenza non potrà rispondere nei 25 giorni a sua disposizione. Così la palla tornerà all’amministrazione (quasi sempre il comune) che emetterà il provvedimento di diniego o accettazione, magari anche nei tempi previsti ma, di fatto, decidendo da sola.
Il Sole 24 Ore 28.08.10