Perché le città italiane non sono in grado di fare della cultura una forte leva di sviluppo economico e sociale? Nell’ampio articolo di Irene Tinagli apparso sulla Stampa il 23 agosto, in cui si citano casi internazionali di grande successo il nostro Paese, anche sul fronte dello sviluppo urbano, pare bloccato. In Italia non si è consapevoli dell’opportunità costituita dal sistema urbano diffuso. Le città sono considerate lo sfondo dell’azione politica, economica e culturale e non il motore della nazione. Esistono casi che vanno contro tale impostazione: città di dimensioni medio piccole, come Siracusa e Matera, Rimini e Reggio Emilia, Mantova e Trento hanno dimostrato che la trasformazione urbana può essere gestita unendo al meglio creatività e spazi architettonici, dando vita a scene culturali alternative in cui convivono nuovi mercati del lavoro, forme di ricerca scientifica e innovazioni tecnologica, apertura sociale e qualità culturale.
Anche grandi aree ex industriali hanno visto coinvolti migliaia di metri cubi di rinnovamento: Genova, Napoli e Torino sono le tre aree metropolitane che meglio hanno affrontato la sfida del passaggio dal fordismo a una nuova concezione dello spazio urbano, e in tutti le tre città sono stati i movimenti culturali a dare slancio al cambiamento. Ma oggi, dopo vent’anni di esperimenti anche riusciti, in Italia manca ancora un Dipartimento delle aree urbane, manca la consapevolezza che investire in cultura urbana porti nel medio lungo periodo a risultati importanti per tutti. Nessuna città italiana sembra in grado oggi di impegnare risorse per immaginare quello che sarà tra dieci o quindici anni.
Serve un dialogo nazionale sul tema, per costruire al più presto un luogo di confronto e di scelta in cui «cooperare per competere». Dare uno slancio a un nuovo rinascimento urbano, con un progetto nazionale da qui al 2020, sarebbe una scelta prioritaria per il nostro Paese. Un modo concreto di mettere insieme territori e sviluppo. Ma c’è chi a tempo di lavorare a un simile progetto?
Perché le città italiane non sono in grado di fare della cultura una forte leva di sviluppo economico e sociale? Nell’ampio articolo di Irene Tinagli apparso sulla Stampa il 23 agosto, in cui si citano casi internazionali di grande successo il nostro Paese, anche sul fronte dello sviluppo urbano, pare bloccato. In Italia non si è consapevoli dell’opportunità costituita dal sistema urbano diffuso. Le città sono considerate lo sfondo dell’azione politica, economica e culturale e non il motore della nazione. Esistono casi che vanno contro tale impostazione: città di dimensioni medio piccole, come Siracusa e Matera, Rimini e Reggio Emilia, Mantova e Trento hanno dimostrato che la trasformazione urbana può essere gestita unendo al meglio creatività e spazi architettonici, dando vita a scene culturali alternative in cui convivono nuovi mercati del lavoro, forme di ricerca scientifica e innovazioni tecnologica, apertura sociale e qualità culturale.
Anche grandi aree ex industriali hanno visto coinvolti migliaia di metri cubi di rinnovamento: Genova, Napoli e Torino sono le tre aree metropolitane che meglio hanno affrontato la sfida del passaggio dal fordismo a una nuova concezione dello spazio urbano, e in tutti le tre città sono stati i movimenti culturali a dare slancio al cambiamento. Ma oggi, dopo vent’anni di esperimenti anche riusciti, in Italia manca ancora un Dipartimento delle aree urbane, manca la consapevolezza che investire in cultura urbana porti nel medio lungo periodo a risultati importanti per tutti. Nessuna città italiana sembra in grado oggi di impegnare risorse per immaginare quello che sarà tra dieci o quindici anni.
Serve un dialogo nazionale sul tema, per costruire al più presto un luogo di confronto e di scelta in cui «cooperare per competere». Dare uno slancio a un nuovo rinascimento urbano, con un progetto nazionale da qui al 2020, sarebbe una scelta prioritaria per il nostro Paese. Un modo concreto di mettere insieme territori e sviluppo. Ma c’è chi a tempo di lavorare a un simile progetto?
* Comitato Italia 150
La Stampa 25.08.10
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“Sgravi fiscali più creatività e la città rinasce”, di Irene TInagli
Barcellona, eclettica di giorno e di notte, con un capitale culturale immenso. Unica al mondo con 9 edifici Patrimonio dell’Umanità. Da Seattle a Lille per riqualificarsi le città ex industriali ora puntano su cultura e arti, nuove leve per uno sviluppo economico e sociale.
AA.A. creativi e artisti cercansi per rilancio urbano. Ormai da diversi anni è questa, pare, la tendenza più in voga in tema di sviluppo urbano: far leva su fattori creativi ed immateriali come l’arte, la cultura, la musica o il design per promuovere una nuova immagine della città, per attrarre artisti, giovani professionisti e imprenditori innovativi.
Molte le città che hanno abbracciato o stanno cercando di adottare questo approccio: dagli esempi più spesso citati come Seattle, Austin, Barcellona o Bilbao, fino a realtà meno note al grande pubblico. Ma non meno interessanti come Glasgow, Edimburgo, Denver, Pittsburgh o Lille. Tra le grandi città che in anni più recenti hanno adottato politiche culturali molto aggressive troviamo anche Toronto e Berlino.
Le strategie e le politiche adottate su questo fronte sono molto variegate e spesso includono un mix di interventi e azioni che spaziano dalle infrastrutture alla programmazione culturale e all’istruzione, dal grande museo simbolo a un insieme di piccoli eventi di strada, festival e concerti. In linea di massima, e semplificando un po’, le strategie possono essere classificate in due tipologie molto diverse. Da un lato c’è chi tende a investire soprattutto in infrastrutture, in enormi progetti architettonici di riqualificazione urbana e grandi eventi, come è avvenuto per esempio in molte città spagnole, da Barcellona a Bilbao. Quest’ultima, col suo famosissimo Guggenheim attrae quasi un milione di visitatori ogni anno, ed è riuscita così a trasformarsi da città industriale in declino in meta privilegiata del turismo culturale internazionale.
Dall’altro lato invece c’è chi adotta politiche culturali più diffuse, quasi micropolitiche che cercano soprattutto di operare sul piano sociale e culturale, magari attraverso un mix di incentivi fiscali per artisti e programmi educativi e culturali rivolti ai bambini e alla popolazione in generale. Più che puntare solo su grandi progetti. È stato questo, per esempio, il caso di Denver, che è riuscita a trasformarsi in uno dei «distretti culturali» più vivaci e attrattivi d’America attraverso un’agenzia di sviluppo dinamica ed efficiente (il Colorado Business Committee for the Arts) e un originale metodo di finanziamento che dal 1989 destina a organizzazioni artistiche e culturali l’uno per mille di tutte le tasse sul fatturato prodotto nella regione.
Un caso che per certi versi ricorda quanto accaduto a Lille, che già da fine Anni Settanta ha iniziato a trasformarsi da vecchia città industriale in centro culturale vibrante e dinamico attraverso programmi educativi che coinvolgono scuole e università, ma anche programmazioni culturali che riguardano decine di associazioni, volontari, negozi e aziende, nonché un generoso sistema che ogni anno supporta progetti artistici, manifestazioni ed eventi. Basta pensare che oggi Lille destina ben il 15% di tutto il budget cittadino alla produzione e promozione di attività culturali. Una costanza che oggi fa della cittadina francese una delle regioni culturalmente più vivaci d’Europa.
Interessante anche il caso di Pittsburgh, che ha cercato un mix di intervento pubblico e privato con misure sia relative ad aspetti infrastrutturali, attraverso la riqualificazione di teatri e musei, che ad aspetti più soft, attraverso una programmazione culturale sempre più ricca, un forte coinvolgimento del volontariato, delle università e delle aziende locali. Il Pittsburgh Cultural Trust, l’ente non profit che unisce pubblico e privato e che dal 1984 cura la riqualificazione e la programmazione culturale della città, ha oggi un budget operativo di circa 52 milioni di dollari, gestisce oltre quattordici strutture culturali nel centro (teatri, gallerie d’arte, spazi polifunzionali ecc.) e numerosi festival e iniziative culturali. Un programma che certo ha richiesto tempo prima di prendere forma e che ancora oggi sta crescendo, ma di cui si cominciano a raccogliere i frutti.
Ma forse tra tutti il caso che recentemente ha attirato più l’attenzione dei media è Berlino, una città che ora è in gran voga, ma che già da alcuni anni ha in piedi un sistema di agevolazioni fiscali e aiuti per artisti e per tutte le organizzazioni che vogliano impegnarsi in attività culturali. Questi incentivi economici, uniti a politiche sociali molto solide e a una grande disponibilità di spazi a basso costo, hanno rappresentato una grande attrattiva per creativi di tutto il mondo in cerca di spazi per vivere e lavorare senza l’ansia di arrivare a fine mese come accade a Londra o New York. Ed è così che piano piano Berlino si è costruita una reputazione internazionale di città cool, riuscendo poi ad attrarre anche giovani professionisti e imprenditori innovativi.
Dunque l’arte e la creatività come una ricetta di sviluppo miracolosa e infallibile? Niente affatto. Come tutte le politiche, anche questa richiede grande attenzione, costanza, ed equilibrio, saper capire le specificità locali e affrontare i risvolti sociali. E se tutti ora parlano di Bilbao, nessuno cita però i numerosi tentativi di emulare Bilbao finiti in fallimento. Così come nessuno parla del fatto che le riqualificazioni urbanistiche in città come Barcellona hanno spinto nelle periferie molta della popolazione più povera che prima abitava in centro, creando talvolta problemi e conflitti sociali. No, non sono politiche facili (ammesso che ve ne siano), ma quando sono realizzate correttamente valgono la pena perché servono come strumenti di crescita non solo economica ma sociale e culturale di tutta un’area. L’approccio giusto non sta in un’opera, un museo o un festival, ma nella mentalità, nello spirito che le anima, in un modo di vedere e interpretare la cultura, l’arte e la creatività non come oggetti da mettere in vetrina e vendere per fare cassa, ma come un mondo fatto di persone, idee, produzione e innovazione. Una comunità che produce idee, che discute e fa discutere, che affronta e interpreta problemi del nostro tempo, che genera fermento, curiosità, e che funziona da stimolo anche per i non artisti, per i professionisti, gli imprenditori, gli studenti, la gente comune. Una cultura che produce e che contamina. Serve quindi una mentalità aperta, non lineare, che tolleri anche elementi di non programmabilità, di confusione, di caos, e persino di inefficienze. «L’innovazione è inefficiente – esclamava qualche anno fa il noto guru dell’informatica e professore del Mit, Nicholas Negroponte -, è indisciplinata, contraria, iconoclasta; si nutre di confusione e contraddizione».
Questa è la mentalitè delle città che riescono a usare con successo la cultura come leva di sviluppo economico e sociale. E questo è proprio quello che, forse, manca oggi al nostro Paese. Un Paese che ha città stupende e risorse enormi, ma che continua a interpretare la cultura come strumento di consumo e attrazione turistica, snobbandone o ignorandone il cuore pulsante e vero, quella comunità artistica e intellettuale che ne rappresenta l’anima e la vera potenzialità.
La Stampa 23.08.10