Nel duro scontro fra interessi privati e bene comune dei cittadini, c´è un dato da cui partire: il più robusto schieramento italiano è il “partito della Costituzione”. Lo mostra l´eloquenza dei numeri: nelle elezioni del 2008, il maggior partito italiano (il Pdl) ebbe 13.629.464 voti, pari al 37,3% dei voti espressi; nel referendum del 2006, la riforma costituzionale varata dal centro-destra fu bocciata da 15.791.293 italiani (il 61,3 % dei voti espressi). La percentuale dei votanti fu assai diversa nei due casi (52,3% nel 2006, 80,4% nel 2008), ma quel che conta (anzi, conta ancor di più) è il dato in cifra assoluta: a difesa della Costituzione, contro una riforma che somiglia anche troppo all´insussistente “Costituzione materiale” invocata dall´onorevole Bianconi contro il Capo dello Stato, votarono allora oltre due milioni di cittadini più degli elettori Pdl di due anni dopo. Come ha osservato il Presidente emerito Scalfaro, i vincitori del referendum del 2006 non seppero trarre le conseguenze di quel risultato, ma è oggi il momento di ricordarsene. Oggi, mentre il Paese è in preda a una schizofrenia di cui gli osservatori stranieri sembrano accorgersi molto più di noi.
Il tema dei beni pubblici, che Rodotà ha affrontato in queste pagine il 10 agosto, è un´ottima cartina di tornasole: nella stessa Italia nascono oggi da un lato avanzatissime proposte, dall´altro sgangherate devoluzioni. L´Accademia dei Lincei ha appena pubblicato un bel volume (a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà) sui Beni pubblici dal governo democratico dell´economia alla riforma del Codice Civile. Sono gli atti di un convegno (aprile 2008) sui lavori della Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, che ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008. Dato che lo statuto dei beni pubblici è «disperso in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice Civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali», quella Commissione provò a metter ordine, usando come guida i valori della Costituzione, poiché «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa» (le citazioni da U. Mattei). Sono state così individuate alcune categorie fondamentali, a cominciare dai beni comuni, «che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata, per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo» e dai beni ad appartenenza pubblica necessaria, «che appartengono alla stessa essenza di uno Stato sovrano». Vi sono poi i beni pubblici sociali, «fortemente finalizzati, attraverso un vincolo di scopo, agli aspetti misti e sociali del nostro disegno costituzionale», e i beni pubblici fruttiferi, sostanzialmente disponibili, ma con «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per così dire “liquido” di tutti noi». Tutti i cittadini italiani «sono titolari pro quota di beni pubblici», onde eventuali alienazioni comportano garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà.
In luogo di questa concezione dei beni pubblici, che rispetta la Costituzione e l´interesse dei cittadini come collettività e come singoli, si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l´etichetta di “federalismo demaniale” borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza (e di ciascuno di noi), e lo ridistribuisce a Regioni ed enti locali, utilizzandolo come una sorta di salvadanaio di terracotta, da fare a pezzi per prelevarne ogni spicciolo e gettarlo al vento. In base alla legge Calderoli, lo Stato cede 19.005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre tre miliardi. Passano a Comuni, Province e Regioni beni del demanio idrico e marittimo, caserme e aeroporti, catene montuose, e così via. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita. Un´altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, e cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata (purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente). Si capisce così come mai il monte Cristallo sia stato valutato 259.459 euro, e le intere Dolomiti 866.294 euro [Il Gazzettino, 4 agosto 2010]: perché sono destinate a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore “equivalente” onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700.000 italiani d´ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della I guerra mondiale.
Il “federalismo demaniale” è stato reclamizzato dal presidente della Regione Veneto Zaia come la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone: un argomento che ha convinto l´”opposizione”, tanto è vero che l´Idv ha votato a favore, il Pd si è astenuto. Tanta concordia non è dovuta a distrazione: evidentemente non solo a destra si condivide il disegno di utilizzare i beni pubblici, come dice la legge Calderoli, «anche alienandoli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale», cioè non di tutti gli Italiani, nel cui portafoglio proprietario quei beni erano fino a ieri. “Produrre ricchezza” vuol dire svendere, visto lo stato disastrato delle finanze locali (la manovra Tremonti 2010 ha tagliato a Regioni ed enti locali altri 15 miliardi nel triennio), e visto che secondo leggi recenti i Comuni devono allegare al bilancio ogni anno un «piano di alienazioni immobiliari». Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia (Corriere della Sera, 2 agosto), «fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più. Dobbiamo aspettarci la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione». Contro queste ed altre schizofrenie che viviamo, contro quello che si scrive “federalismo” e si legge “secessione”, contro la strategia perdente di inseguire la Lega sul suo terreno, la Costituzione è il massimo baluardo. La Costituzione scritta, quella che quasi sedici milioni di italiani difesero nel 2006 col loro voto. La sola Costituzione esistente, quella di cui il Presidente della Repubblica è e deve essere garante supremo.
La Repubblica 24.08.10