NON è una novità, il protagonismo di Bossi. Esibito anche in passato, quando la Lega contava molto meno. Tuttavia, Bossi (e, di riflesso, la Lega) raramente è apparso così determinato. Oggi, infatti, è lui a dettare i tempi e i temi della crisi. Senza preoccuparsi di nulla e nessuno. Nei confronti di Fini e dei suoi amici: «Bisogna cacciarli. Fini è invidioso e rancoroso». Il dialogo è tempo sprecato: «Meglio andare a votare subito».
Cioè: «A fine novembre, al massimo ai primi di dicembre». Lo ha ripetuto più volte, negli ultimi giorni. D´altronde, non c´è spazio per altre maggioranze, oltre a questa. Di fronte a governi tecnici il Nord insorgerebbe.
È già campagna elettorale. E Bossi non perde occasione per riproporre i temi dell´agenda leghista. In primo luogo, il “mitico” federalismo. Poi, la sicurezza (i soliti immigrati, il cui numero e la cui pericolosità sociale salgono e calano a comando. Magari a tele-comando. Secondo l´urgenza politica del centrodestra). Poi il Sud. Dove, secondo Bossi, Fini – il nemico di Tremonti – «vuole sprecare i soldi dello Stato».
Il protagonismo di Bossi ha reso lo stesso Berlusconi quasi un comprimario. Un partner livido e imbarazzato. Mosso da istinti e interessi personali più che da ragioni politiche – non diciamo “pubbliche”. Accecato dal risentimento verso Fini, il traditore. Deciso a fargliela pagare, a sputtanarlo. Quel moralista immorale che pretende di dar lezioni di pubblica morale.
Così Berlusconi, spinto dall´alleato e dall´istinto, ha imboccato la strada che porta a nuove elezioni. Che sembrano, francamente, inevitabili. Lo ha ripetuto ieri lo stesso premier. Nonostante i 5 punti posti a Fini e ai suoi fedeli, come condizioni non negoziabili. Tuttavia, non comprendiamo i motivi per cui Berlusconi e il Pdl debbano augurarsi nuove elezioni, al più presto. Anzi, nell´attuale situazione, vediamo 5 buone ragioni per cui Berlusconi, secondo noi, dovrebbe semmai temere il voto. E lavorare, almeno, per allontanarne la data.
1. La prima riguarda l´intera maggioranza. Richiama il rischio della delusione. Il malumore degli elettori di fronte a una coalizione incapace di garantire al Paese governo e stabilità. Dopo aver vinto nettamente le elezioni e conquistato una larga maggioranza parlamentare. Solo due anni fa. Una crisi politica nazionale dagli effetti imprevedibili, nel mezzo di una crisi economica internazionale profonda. Gli elettori, compresi quelli di centrodestra, potrebbero leggere in questi eventi i segni di un fallimento. Che coinvolge il progetto – ma anche la leadership – di Berlusconi. Il quale, insieme a Bossi, tenta di scaricarne per intero la colpa su Fini. Ma Fini è il socio fondatore del Pdl. Il partner di Berlusconi. Da 16 anni partecipe del medesimo progetto.
2. La seconda ragione riguarda il Pdl. Un partito cresciuto fragile. Gli elettori di An non l´hanno mai percepito totalmente come “proprio”. Il calo registrato dai sondaggi condotti in luglio ne riflette, in parte, il disorientamento. Per ora tende a tradursi in “non-voto potenziale”, che induce molti elettori del Pdl a non dichiarare la loro scelta. Così il partito si è attestato, nelle stime, intorno al 30% (secondo alcuni analisti anche meno). Cioè: quel che aveva ottenuto Forza Italia – da sola – nel 2001.
3. La terza ragione riguarda l´impianto territoriale del Pdl. Come ha gridato Bossi, Fini vuole fondare il “partito del Sud”. Il che significa: levare la terra sotto i piedi al Pdl. Unico partito “nazionale”. Erede – in questo – della tradizione democristiana e dei partiti di governo della prima Repubblica. Come può, il Pdl, immaginare di “tenere” su base nazionale, se si vede succhiare il bacino elettorale a Nord dalla Lega e al Sud da Fini, oltre che dall´Udc, Lombardo e magari Miccichè?
4. La quarta ragione, coerente, è che questo governo ha assunto una chiara identità “nordista”. È il governo di Bossi, Tremonti e Berlusconi. Garante del federalismo. Una riforma che nel Mezzogiorno è percepita, da un terzo dei cittadini, come un “pericolo”. Così, a Nord e a Sud, il Pdl rischia di essere considerato gregario della Lega. Mentre il vero premier appare Tremonti.
5. La quinta e ultima ragione è conseguente – e palese. Oggi il vero avversario, la vera minaccia, Berlusconi e il Pdl ce l´hanno lì, vicino a loro. È la Lega. È Bossi che, non a caso, continua a dare buoni consigli – per sé – che si traducono in altrettante insidie per Berlusconi.
Regala il Sud a Fini (e ai Centristi). Al Senato, soprattutto, potrebbe costare molto caro. Destabilizza il governo e la maggioranza, gridando: «Al voto! Al voto!».
D´altra parte, paradossalmente, la Lega continua ad apparire – ai suoi elettori – opposizione e governo al tempo stesso. Sta al governo, indubbiamente. Ma solo per “difendere il Nord”. Quasi un agente infiltrato a Roma, al servizio degli interessi padani. Bossi, agli occhi dei suoi elettori, non appare l´amico fidato di Berlusconi. A cui ha sempre garantito sostegno leale. In tutte le vicende giudiziarie, anche le più imbarazzanti. Ma, al contrario, un “controllore”. Un garante.
Così, Bossi, soffia sul fuoco. Qualsiasi cosa succeda, ritiene che la Lega possa guadagnarci. I sondaggi la stimano intorno al 12%. E, quindi, più del doppio nel Nord. Dovesse rivincere il Centrodestra, la Lega ne uscirebbe più forte. Anche perché, presumibilmente, il PdL ne uscirebbe più debole (soprattutto, ma non solo, al Sud). Dovesse perdere il centrodestra (ipotesi da non escludere), la Lega avrebbe di fronte altre opzioni. La più attraente e al tempo stesso inquietante: diventare il polo dell´opposizione. Non solo politica, ma allo Stato. Il Polo Nord. In fondo, governa già: in 2 Regioni (Veneto e Piemonte), in 14 province e in oltre 350 comuni. Ottenesse una ulteriore investitura politica, nell´anno del 150enario dell´Unità d´Italia, si rischierebbe uno strappo di proporzioni difficilmente prevedibili.
Tuttavia, non bisogna mai sottovalutare il Cavaliere. Fare i conti come fosse “fuori gioco”. Lui: non si arrende mai. Cade e si rialza. E in campagna elettorale dà il meglio di sé. La differenza dal passato è che, questa volta, non deve guardarsi dagli altri. Dagli avversari. Ma dai suoi alleati. E da se stesso.
La Repubblica 23.08.10
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“IL VERBO DELL´AUTOCRATE”, di ADRIANO PROSPERI
«No a formalismi costituzionali, decide il popolo». Questo il verbo dell´autocrate populista, sordo a ogni richiamo alla correttezza delle forme. Nella cronaca avvelenata di questo agosto, sullo sfondo dello sfaldamento del conglomerato del “popolo della libertà”, si punta a un regolamento di conti elettorale in barba alle emergenze economiche e sociali che il prossimo autunno fa ragionevolmente temere.
Su questa strada si presenta l´ostacolo costituito dal necessario passaggio formale della verifica che il presidente della Repubblica è tenuto a fare sull´esistenza o meno di una maggioranza politica in questo Parlamento. Dunque la frase di Berlusconi è in primo luogo una risposta ai richiami giunti in questi giorni proprio dal presidente della Repubblica: richiami fermi e quanto mai opportuni, se si pensa che perfino il ministro guardasigilli si è permesso di ritagliare a suo comodo il dettato dell´articolo primo della Costituzione là dove si fissa con esattezza il punto di contatto e di concordia tra forma e sostanza: «L´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Sostanza è la sovranità del popolo: forme sono quelle previste dalla Costituzione per guidare entro limiti determinati il percorso attraverso il quale la sostanza della sovranità deve diventare il volto istituzionale e politico del Paese.
Tutt´e due, sostanza e forma, sono necessarie. Senza la sostanza del popolo sovrano la forma politica di un paese diventa una vuota maschera; senza il rispetto di adeguate forme costituzionali quella sovranità è una forza incontrollata e distruttiva, aperta agli esiti più disastrosi. Basta risalire alla storia della nascita delle moderne democrazie per scoprire che l´accordo preliminare sulle forme costituzionali è stato il passaggio necessario per dare vita alla sostanza della volontà popolare. Quelle regole, una volta fissate, devono essere sacre per tutti, in modo speciale per chi assume un potere di governo che gli viene delegato dal popolo attraverso il passaggio formale del giuramento di osservare la Costituzione. Giuramento che tutti i membri del governo attuale hanno fatto. Che poi abbiano finto di dimenticarlo quel giuramento e non perdano occasione per gareggiare nel dileggiare la Carta costituzionale è una delle cose che fa tristezza e vergogna a chi guarda a questo spettacolo indecente.
Ci chiediamo quanto dovremo aspettare per avere un governo fatto di persone capaci di sentirsi legati a qualcosa di superiore rispetto alla impellente necessità di togliere il premier dai suoi guai giudiziari. Perché questo avvenga proprio in Italia e per opera di un governo che ha promesso di “fare” e poi ha disfatto, e per la guida di un imprenditore che si dichiara estraneo alla politica, è un problema che richiederebbe attenzione. È un fatto che l´Italia ha da questo punto di vista una cattiva fama che dura da tempo. Il celebre storico e politico francese François Guizot scriveva nell´800 che in Italia, «gli uomini d´affari, i padroni della società non hanno mai tenuto quasi nessun conto delle idee generali; non hanno quasi mai provato desiderio di regolare, secondo certi principi, i fatti posti sotto la loro giurisdizione».
È una regola confermata dall´attuale governo, sempre più un governo degli affari privati di Berlusconi. E in fondo il disordine nato nella compagine governativa non è che la riprova che lo sprezzo delle forme produce il disordine avvilente di quella Prova d´orchestra di Federico Fellini: un´orchestra governativa che oggi produce solo rumore.
La Repubblica 23.08.10