Come possiamo definirlo l’esecutivo che a settembre busserà alle Camere per rinnovare il patto programmatico? Quanto alla contabilità dinastica, non un Berlusconi 5: manca l’apertura formale della crisi, manca il reincarico al presidente uscente che Berlusconi aveva già sperimentato durante la XIV legislatura. Nemmeno, però, l’identico Berlusconi 4 che esordì all’avvio della legislatura in corso: se c’è un nuovo programma, se c’è un nuovo voto di fiducia, se c’è un nuovo gruppo parlamentare (Futuro e libertà) nella coalizione di maggioranza, nessuno potrà fingere che sia tutto come prima.
E allora chiamiamolo Berlusconi 4 e mezzo, tanto nella politica italiana i numeri sono sempre un po’ approssimativi.
E quanto al timbro, alle caratteristiche, al tratto saliente del vecchio-nuovo esecutivo? Qui la nomenclatura è più ricca di un forziere, dato che in sessant’anni di Repubblica ne abbiamo viste di cotte e di crude. Governi tecnici o politici. Governi monocolore, bicolore, arcobaleno (l’ultimo Prodi, con 11 partiti a dividersi il boccone). Governi di unità nazionale (1946-1948) ovvero di solidarietà nazionale (quelli presieduti da Andreotti negli anni Settanta). Governi balneari, elettorali, di transizione, d’emergenza. Governi a tempo (nel 1986, con il “patto della staffetta” tra Craxi e De Mita). Governi di legislatura (formula coniata da Nenni nei primi anni Sessanta, per stabilire che in caso di crisi il capo dello Stato avrebbe dovuto sciogliere le Camere, senza esplorare nuove maggioranze: ecco dunque a chi s’ispira Berlusconi). Senza dire dei governi ombra inventati da Occhetto e replicati da Veltroni, che in realtà non furono neppure l’ombra di un governo.
E in questo caso? Poiché il presidente del Consiglio s’accinge a un nuovo battesimo parlamentare sulla base di un programma articolato in cinque punti, diciamo che la sua compagine si trasforma in un governo programmatico. Non perché possano darsi esecutivi orfani di un programma di governo: nelle democrazie parlamentari quest’ultimo è così essenziale che in Italia, durante l’Ottocento, veniva addirittura pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Quanto perché, nell’empasse che paralizza l’attuale maggioranza, il nuovo programma funziona da collante, detta un’agenda minima per evitare di chiudere bottega.
Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole. La prima Repubblica fu prodiga di episodi come questo, perciò l’autentica notizia è un’altra: sono tornati i dinosauri, ammesso che si fossero mai estinti. Nell’estate del 1969 la direzione della Democrazia cristiana s’espresse per un “monocolore programmatico” durante la crisi del governo Rumor. Nel 1971 i repubblicani uscirono dal governo Colombo ma non dalla maggioranza, sicché alle Camere venne approvata una mozione per riaffermare la piattaforma politica dell’esecutivo; se dal copione sposti qualche virgola, ci ritrovi l’identico copione recitato da Berlusconi e Fini, inclusa la mozione in Parlamento. Infine pure Craxi auspicò un “governo di programma” durante la crisi (poi rientrata) del novembre 1987.
Tuttavia il più diretto precedente è un altro: luglio 1976, terzo governo Andreotti. Il governo programmatico per eccellenza, altrimenti detto “della non sfiducia” o “delle astensioni”. Si reggeva infatti su un continuo andirivieni nelle assemblee legislative, con un drappello di parlamentari che s’astenevano o uscivano dall’aula; tal quali i finiani sulla mozione di sfiducia a Caliendo, nel primo atto ufficiale del loro neonato gruppo. L’anno dopo, però, i partiti che inizialmente si erano astenuti su Andreotti concordarono un programma, lo votarono attraverso una mozione in Parlamento, e inaugurarono così un sistema schizofrenico, con una maggioranza di programma scissa dalla maggioranza di governo. Come 34 anni dopo sta per succedere daccapo.
Insomma ci risiamo. Con la conseguenza che insieme alla prima Repubblica tornano in auge tutti i suoi paradossi, per la gioia degli appassionati di giochi enigmistici. Per esempio: il nuovo programma di governo rimpiazzerà quello precedente? Se sì, in Afghanistan Berlusconi potrà fare un po’ come gli pare, dato che la politica estera non vi figura in alcun modo. Se no, significa che il vecchio programma deve essere ancora realizzato proprio nei cinque punti che la maggioranza considera essenziali, e non è una bella prova d’efficienza.
Ma forse il più acuto paradosso è un altro. Nel 1994 gli italiani avevano votato Berlusconi per liberarsi della Democrazia cristiana, delle sue liturgie, delle sue schermaglie di palazzo; niente da fare, moriremo democristiani.
da www.ilsole24ore.it