Anche solo iniziare una recensione di opere sull’Olocausto — e sul mattatoio di Treblinka nel dettaglio — significa entrare in un ginepraio.
Quest’anno però sono apparsi alcuni testi davvero interessanti e molto diversi fra loro — più la riedizione del film Shoah di Lanzmann — che sembrano proporre, messi l’uno accanto all’altro, uno spettro di letture comparate. Un modo di guardare a Treblinka e all’Olocausto attraverso il reportage, la testimonianza in prima persona, la poesia, e il documentario. Quattro lenti diverse per una stessa tragedia, che non finiremo mai di indagare e riportare alla luce.
1. Grossmann all’inferno
Scritto ai tempi in cui Grossmann aderiva ancora al comunismo, L’inferno di Treblinka pecca di qualche inesattezza e alcuni momenti agiografici verso la Russia di Stalin (e dei gulag). Ciò nonostante, rimane un documento di enorme valore umano. La compassione che muove Grossmann, infatti, non toglie nulla alla lucidità della sua penna: rende anzi le descrizioni ancora più accorate.
Nel campo di lavoro di Treblinka confluivano soprattutto prigionieri politici: e per diventarlo, era sufficiente una battuta casuale o un sospetto qualsiasi. La loro vita era scandita da ritmi di fabbricazione mostruosi, botte giornaliere, minacce di morte continue e spesso realizzate senza alcun motivo: “le SS del campo di lavoro polacco agivano come se stessero coltivando patate o cavolfiori”.
Ciò nonostante, nel 1942 i nazisti costruirono qualcosa di ancora più terribile: Treblinka II, il campo di sterminio.
La “fabbrica della morte” — che uccise più persone di qualunque altro campo di sterminio tedesco, salvo Birkenau — viene evocata da Grossmann in ogni dettaglio.
I prigionieri erano tradotti quotidianamente dalle zone limitrofe: quattro o cinque convogli al giorno, carichi di ebrei ma anche di occidentali sorpresi dalla guerra, che pensavano di essersi comprati l’espatrio e invece erano stati traditi.
Il procedimento era votato alla massima efficienza. Chi arrivava veniva spogliato di ogni avere alla stazione, quindi accompagnato nel campo. I soldati avevano la cura di non annunciare mai ciò che sarebbe accaduto, per evitare scene di panico assoluto: una voce al megafono si limitava a fornire indicazioni per le “docce”: spogliarsi, portare nei bagni i soldi rimasti e l’asciugamano…
Grossmann dipinge il crescendo accumulando particolari. Il lezzo di putrido. Le mosche troppo grasse. Il silenzio irreale. Mentre camminano lungo la “strada senza ritorno” che porta al luogo della gassazione, i prigionieri primi della fila “distinguono sulla rena smossa le tracce recenti di altri piedi scalzi: piccoli — piedi di donna, ancora più piccoli — piedi di bambino, e orme profonde di anziani.”
Ancora pochi minuti e ogni inganno cade. Le guardie trascinano tutti nell’edificio, chiudono la porta e liberano monossido di carbonio — o aspirano l’aria contenuta nella stanza. Dopo una ventina di minuti circa, nei casi migliori, tutti i corpi sono privi di vita.
La fine arriva il 2 agosto 1943. Una rivolta di prigionieri, programmata a lungo nella più assoluta disperazione, riesce ad avere la meglio sulle SS e incendia l’intero campo. Avendo l’Armata Rossa alle calcagna, Himmler dà l’ordine di non riaprirlo — in ogni caso, il più era fatto e non c’era modo di tornare indietro.
Grossmann arriva all’inferno tredici mesi dopo la rivolta. Tutto è deserto e spettrale, e nei campi coltivati a lupini spuntano ossa, frammenti di lettere, fotografie, passaporti, denti: tutto ciò che il suolo non vuole trattenere, un segreto più grande della terra stessa.
Così l’autore tocca con mano gli effetti dello sterminio pianificato di quasi un milione di persone. La guerra non è ancora finita e Grossmann è un uomo che ha passato mesi al fronte come reporter, ma le sue parole perdono comunque il controllo, si sfaldano, precipitano in una confusione che domanda perché.
2. In prima persona
A questo punto potete rivolgervi alla testimonianza diretta di Rajchman Chil, Io sono l’ultimo ebreo: alla terza persona di Grossmann subentra una soggettiva devastante.
Chil è uno dei cinquantasette uomini che sono riusciti a scappare nella rivolta del 1943: quando arriva a Treblinka, l’anno precedente, ha ventotto anni. Con lui c’è la sorella minore, che viene tradotta immediatamente nelle camere a gas. Chil, al contrario, è impiegato come Sonderkommando.
La selezione è del tutto casuale: una guardia domanda al suo gruppo: “Chi di voi è un barbiere?” E Chil risponde: “Io.” Così si salva la vita, in cambio del primo compito: radere i capelli delle donne prima di portarle nelle stanze della morte, le stesse dove è finita sua sorella.
Pochi giorni dopo passa nel secondo campo, il Totenlager, e si occupa di rimuovere i denti d’oro dalle bocche dei cadaveri. Nominalmente, è un “dentista”. La descrizione dei lavori cui Chil è costretto sono asciutte e precise: alternative non ce ne sarebbero state, e la sua esistenza diventa una routine di atrocità dove i concetti stessi di corpo e di essere umano perdono significato. Si trasforma in uno di quelli che Primo Levi definisce — senza alcuna facile accusa — i “miserabili manovali della strage”.
Durante la ribellione Chil è incaricato di diffondere la voce presso i compagni, e rassicurarli sulla bontà dell’operazione (molti erano all’oscuro della rivolta). Riesce a fuggire, arriva a Varsavia durante la resistenza del ghetto, e vi rimane fino alla fine della guerra. In questo periodo, come ammette egli stesso, sopravvive senza voler vivere davvero.
Nella postfazione al volume, Elie Wiesel scrive che l’opera di Chil, “con la sua semplicità commovente, apre degli orizzonti nuovi nell’immaginario del Male.”
3. Trovare le parole
Orizzonti nuovi, esatto. Ce ne possono essere altri? Secondo il celebre motto di Adorno, dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto “barbaro”. Non la pensano così i poeti raccolti in un florilegio dello storico Belforte Editore di Livorno, dal titolo stupendo: La notte tace.
Testo a fronte in ebraico e prefazione di David Meghnagi, la raccolta propone testi di denuncia, di indignazione e sofferenza, e soprattutto un dialogo sotterraneo che scorre fra i poeti uccisi nei campi e quelli invece sopravvissuti o lontani (come chi si trovava già in Palestina). Parole diverse per reazioni diverse alla medesima tragedia: vergogna, trauma e disperazione si alternano a canti di preghiera e invocazioni a Dio.
Il paradosso della coesistenza fra lirica e sterminio è risolto con grazia miracolosa: nonostante tutto, nonostante il monito di Adorno, è possibile trovare le parole giuste per nominare quei fatti. Per evocarli con una forma che trascende il dato e il racconto, arrivando a toccare il nucleo puro del dolore. Megnaghi: “La poesia ha una funzione terapeutica, mette in contatto le parti interne morte con quelle rimaste vive e così facendo impedisce che il nemico vinca ancora.”
Impedisce che il nemico vinca ancora.
4. Guardare con i propri occhi
Quest’anno, infine, è stato riedito da 01 Distribution anche il capolavoro di Claude Lanzmann, Shoah: un cofanetto di quattro dvd per un film che in Italia non ha mai avuto vero spazio, almeno fino all’edizione Einaudi del 2007.
Tutto il documentario è di enorme spessore, e ha in sé qualcosa di definitivo — una tale assenza di retorica, un tale rigore etico. La quantità e qualità di intervistati e la regia impeccabile rendono il lavoro del regista francese una pietra di paragone finale a quanto girato in precedenza. Simone de Beauvoir la mise così: “non avrei mai immaginato una simile mescolanza di orrore e di bellezza”.
Il terzo dvd della raccolta è dedicato a Treblinka. All’inizio, un vecchio sopravvissuto canta la canzone di Treblinka in uno sfumato ronzante, da uno schermo televisivo inquadrato nello schermo. Passa poi a spiegare, puntando un bastone contro una mappa sul muro, la geografia mortale del campo. L’iter di arrivo dei vagoni, la denudazione dei deportati, e infine la marcia verso le camere a gas nel “budello”.
“Nel giro di due ore, tra l’arrivo e la morte, era tutto finito”, spiega.
“Un treno intero?”, chiede Lanzmann.
“Un treno intero.”
Seguono lunghe sequenze di panorami. Primi piani silenziosi. Inquadrature a mano nei campi innevati dove prima sorgeva il lager. Torna poi anche qui la figura del “barbiere”, come per Rajchman Chil. Il signor Abraham, intervistato mentre taglia i capelli nel suo negozio, racconta di essere stato reclutato per radere le donne prima dell’esecuzione. “Tentavamo di fare il nostro meglio”, dice. “Di comportarci il più possibile come esseri umani.”
Quattro opere e quattro stili, dunque, per un compito difficile e indispensabile insieme: evitare il luogo comune del ricordo meccanico — della ricorrenza di superficie.
La banalità del male sta anche nel rischio di banalizzare la conoscenza: ormai “tutti sanno”, e proprio per questo il sapere rischia di cadere nell’oblio.
L’inferno di Treblinka
V. Grossmann
Adelphi 2010, 79 pagine
6 euro
Io sono l’ultimo ebreo
R. Chil
Bompiani 2010, 121 pagine
15 euro
La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica
a cura di S. Ferrari
Belforte Salomone 2010, 235 pagine
18 euro
Shoah
C. Lanzmann
01 Distribution 2010, 4 dvd
25,90 euro
da www.ilsole24ore.it