Se doveva servire a riaprire la comunicazione tra i due spezzoni del centrodestra separatisi a fine luglio, aprendo di fatto una crisi nella maggioranza, da quel momento non più tale, il vertice del Pdl a Palazzo Grazioli – va detto – è stato inutile. Lo scambio di ipocrisie che ne è seguito – con Berlusconi a reti unificate pronto a dire che andrà avanti e a snocciolare il programma dei prossimi tre anni, e i finiani che fingevano di interessarsene, aggiungendo che lo attendono in Parlamento per confrontarsi – ha confermato che in un mese la situazione non è cambiata.
E se questo è l’esito della prima estate in cui la politica non ha preso le ferie, tanto valeva che ci andasse, in vacanza. Almeno non avremmo rivisto in tv il premier visibilmente provato dal durissimo braccio di ferro che sta conducendo e da una stanchezza a cui nemmeno il suo abituale trucco di scena riesce a porre rimedio. Né ci saremmo risolti a misurare lo stato d’animo del presidente della Camera dalla bruscaggine con cui ha liquidato il sottosegretario Letta, ancora oggi suo amico, davanti al feretro di Cossiga. Viene da riflettere su quale sia ormai la sostanza del contendere tra i due cofondatori del Pdl. Come ha detto Fini parlando di Berlusconi: «O lui mi distruggerà, o sarò io a distruggerlo». Ecco perché le lunghe settimane d’agosto, invece di essere utilizzate per ridurre la tensione e tentare un chiarimento, sono trascorse a colpi di minacce e di rivelazioni, in un bombardamento quotidiano tra le due trincee nemiche che appena il Parlamento riaprirà si trasferirà in campo aperto.
Non c’è alcun bisogno di chiedersi, come facevano ieri sera molti degli ufficiali dei due eserciti, se il documento uscito da Palazzo Grazioli possa o no servire come base di discussione; né se l’aggiunta del quinto punto (un nuovo giro di vite sulla sicurezza, declinata in termini più vicini alle istanze leghiste, che non alle esigenze finiane), ai quattro già annunciati (federalismo, fisco, giustizia, Sud), complicherà ulteriormente il quadro. Come potrà essere accolto, d’altra parte, nelle Camere, un programma messo a punto soltanto dallo stato maggiore berlusconiano, senza che uno solo degli ambasciatori del Presidente della Camera abbia potuto mettere piede ieri a Palazzo Grazioli? Conseguentemente i deputati e i senatori di Futuro e Libertà consegneranno a Berlusconi, quando si presenterà in Parlamento, una fiducia formale, mantenendo in realtà tutte le loro riserve, per impedirgli di aprire la crisi e correre alle elezioni. Ma il giorno dopo, ovunque, nelle commissioni, nelle aule, in tv e nelle piazze, riprenderanno la loro guerriglia, contro un governo che presto farà rimpiangere, quanto a stabilità e a capacità di realizzare i suoi impegni, perfino il traballante esecutivo di Prodi affondato due anni fa.
Anche se si ostinano a negarlo pubblicamente, i due duellanti sanno benissimo che finirà così. Infatti, dietro una prospettiva così mediocre – in un momento in cui le difficoltà del Paese e la complessa congiuntura economica che non dà tregua in Europa né altrove richiederebbero di essere governate con più energia – e dietro la loro contesa non c’è più nulla o quasi di politico. È un fatto personale. Berlusconi si sente tradito da Fini. Pensava di avere con lui credito inesauribile, di doverne ricevere gratitudine eterna, per avergli dato 16 anni fa il biglietto di ingresso nel gioco della piena legittimazione politica, sottraendolo al ghetto in cui per quasi mezzo secolo i post-fascisti erano rimasti ai tempi della Prima Repubblica. Non a caso ieri nella sua conferenza stampa s’è riferito più volte al 1994, data di inizio dell’alleanza tra Forza Italia, Lega e An, e ha sottolineato ancora il suo ruolo di presidente del Consiglio «scelto dagli elettori», quasi volesse sottolineare che il centrodestra, nato vincente con lui, senza di lui può anche morire.
Paradossalmente, Fini ragiona allo stesso modo e teme che Berlusconi, pur di non dargli il riconoscimento di partner con eguale dignità della coalizione, sia pronto ad annientarlo politicamente. Vede nella campagna scatenata sui giornali e sulle tv il tentativo, non solo di destabilizzarlo, colpendolo negli affetti familiari, ma anche di dissolvere la sua credibilità di leader. Come se appunto tutto il lavoro fatto da Fini in questi anni non avesse alcun valore per il Cavaliere e il presente e il futuro dell’attuale terza carica dello Stato, a suo giudizio, possano dispiegarsi solo in una sorta di regime di libertà vigilata. Berlusconi inoltre pensa che Fini non potrà resistere a lungo alla pressione a cui è sottoposto, che anche i suoi fedelissimi, vedendolo vacillare di fronte all’imbarazzo della vicenda della casa di Montecarlo finita al cognato o delle controversie immobiliari della sua compagna, cominceranno ad avere ripensamenti. Ma a questo punto anche Fini mette in conto tutto, compresa l’eventuale caduta di una leadership, come la sua, tra le più promettenti di tutta la stagione della Seconda Repubblica. E proprio per questo, prima di cadere, si prepara a sferrare il colpo finale, puntando diritto al cuore del Cavaliere.
È un tramonto davvero cupo quello verso cui si sta avviando l’alleanza tra i due cofondatori. Certo, potrebbero ancora fermarsi, tornare indietro, riprovare a discutere, ma si capisce che non lo faranno. A guardarli, ricordano la vecchia favola della rana e dello scorpione che guadano il fiume uno in groppa all’altra. La rana è sicura che lo scorpione non la pungerà, perché facendola annegare ucciderebbe se stesso. Lo scorpione lo sa, ma alla fine non resiste. E le piazza il pungiglione nella schiena.
da La Stampa del 21 agosto 2010