La storia. Le manifestazioni offrono squarci illuminanti per capire l´Italia repubblicana. Da quelle degli anni Cinquanta, ma soprattutto dal ´68, con nuovi simboli e nuovi miti, fino alle iniziative corporative degli ultimi tempi Così è cambiata nel tempo una forma di protesta.
Offrono squarci illuminanti, i cortei dell´Italia repubblicana. Nel loro svolgersi e nel loro modificarsi annunciano l´avvio e il declino delle stagioni della speranza: così è sin dall´aprile del 1945, con le sfilate partigiane nelle città liberate. E, sempre alla vigilia della repubblica, con le colonne di contadini meridionali che vanno a occupare le terre incolte.
È una stagione breve, sostituita troppo presto dalle asprezze degli anni Cinquanta e della Guerra fredda, con cortei dispersi non di rado dalla Celere di Scelba. E con divisioni sindacali profonde, che inizieranno a sbiadire solo al mutar di decennio: ad esempio nel 1960 milanese, con manifestazioni che iniziano ad unirsi. E con il “Natale operaio in piazza Duomo” di quello stesso anno, le cui ragioni sono accolte sin dall´omelia del cardinale Montini.
Un´aria diversa inizia allora ad attraversare i cortei, con nuove forme espressive (“fischietti subito vietati”, segnala un prefetto) e con nuovi, giovani protagonisti, nello scenario industriale e sociale del boom economico. È iniziato il percorso che dagli anni Cinquanta conduce ai decenni successivi e le foto di Uliano Lucas, Tano D´Amico e altri ci aiutano a capirlo meglio di molti saggi storici.
Analoghi processi investono i cortei politici: c´è una differenza riconoscibile fra la manifestazione per Cuba in cui muore il giovane comunista Giovanni Ardizzone, nella Milano del 1962, e quelle contro la guerra nel Vietnam che di lì a poco attraversano l´Europa e l´America. Annunciano una nuova “internazionale giovanile” che ha in comune simboli e miti, comportamenti e modi di vestire, canzoni e forme espressive. Annunciano anche il ´68, che ha un inizio solare («Oggi ho visto nel corteo tante facce sorridenti / le compagne, quindici anni, gli operai con gli studenti»), ma conosce in seguito rapide derive, non solo per sua colpa («ed ho visto le autoblindo / rovesciate e poi bruciate», per citare quella stessa, non eccelsa canzone). Sono illuminanti anche le trasformazioni dei cortei operai, che diventano – lo osservava Alessandro Pizzorno – momenti di costruzione identitaria e al tempo stesso strumenti di comunicazione. Ai cartelli “ufficiali” si affiancano quelli improvvisati “dal basso”, e poi pupazzi, conigli e asini a simboleggiare “padroni” e “crumiri”, con un sottofondo di campanacci e tamburi di latta che un documentario di Ugo Gregoretti, Contratto, ci restituisce con efficacia.
Alla fine dell´”autunno caldo” la strage di piazza Fontana segna un altro drastico e drammatico mutar di clima, che negli anni Settanta vedrà anche forme di “militarizzazione” dei cortei extraparlamentari. Quella tesa cupezza sarà brevemente interrotta dall´irruzione allegra e appassionata del movimento femminista, con la sua fantasia e i suoi slogan. O, nel 1977, dalla breve e ironica comparsa degli “indiani metropolitani”, presto oscurata negli stessi cortei dalle mani che mimavano (e talora impugnavano) le P 38. E annunciavano gli “anni di piombo”. Un altro cambio d´epoca verrà poi nel 1980 e lo segnalerà un corteo silenzioso e inatteso, la marcia anti-sciopero dei “quarantamila” della Fiat.
Non mancheranno successive ventate di fantasia (dalle manifestazioni per la pace ai girotondi) ma cresceranno soprattutto quei corporativismi incattiviti di cui saranno simbolo i trattori dei “cobas del latte” e le automobili dei tassisti. Tanti cortei, non riducibili a un´unica cifra. O a una tassa.
La Repubblica del 19 agosto 2010