Se si eccettuano Ciampi e Andreotti, non ci sono stati altri in Italia che abbiano avuto un “cursus honorum” così altisonante come quello di Francesco Cossiga: fu sottosegretario alla Difesa con delega sui Servizi, ministro dell’Interno, presidente del Consiglio, presidente del Senato, presidente della Repubblica.
Durante questo lungo percorso militò nella Dc e in particolare nella sinistra di quel partito. Ci furono varie sinistre democristiane: quella di Gronchi, quella di Fanfani, quella di Moro, di Tambroni, di Marcora, di De Mita, ed ebbero diversi destini e diversa dignità. Cossiga militò in una sinistra che aveva lui soltanto come aderente. Una sinistra estremamente mobile e capricciosa, capace di spostarsi su tutto il ventaglio della politica italiana ma con alcuni punti di riferimento fermissimi: i servizi di sicurezza, l’arma dei Carabinieri, l’arma della Marina, gli Stati Uniti d’America e la Corona britannica. Per quest’ultima nutriva una sorta di culto. Anche la massoneria, ma non per adesione ma perché segreta, almeno di nome e di tradizione.
Tutto ciò che era segreto lo affascinava, comprese le tecnologie che maneggiava con grande abilità. Fu un solitario con pochissimi amici. Fu un sardo integrale. E fu un depresso per tutta la vita.
E’ impossibile ricordare e capire Cossiga se non si ha presente la sua depressione. Io l’ho conosciuto bene, gli sono stato amico, e lui a me, per molti anni; direi dal ’78 al ’90. Poi l’amicizia finì quando lui cominciò a picconare dal Quirinale la Costituzione che aveva giurato di difendere. Da allora i nostri rapporti diventarono burrascosi e mai più amichevoli come un tempo. Va anche detto che la capricciosità depressiva del suo carattere aveva raggiunto un’intensità che rendeva precario e rischioso ogni rapporto. Ma sulla natura del suo male, sulla sua origine e il suo decorso non ho mai saputo se non quello che se ne diceva: che era imbottito di farmaci e non sempre con successo sulle sue condizioni generali di salute.
Come tutti i ciclotimici alternava fasi di cupa tristezza e atonia a fasi euforiche e attivissime. Di solito la tristezza solitaria coincideva con sconfitte politiche. Ne ebbe una particolarmente grave dopo l’uccisione di Moro; un’altra di analoga gravità quando fu minacciato di “impeachment” dal Pci guidato da Berlinguer del quale era un lontano cugino acquisito. Infine una terza al termine del settennato presidenziale che, con continue oscillazioni, non l’ha più abbandonato ed è stata probabilmente la causa della sua fine.
Un uomo di grande intelligenza appoggiata tuttavia ad una piattaforma psichica del tutto instabile, come ha potuto percorrere una carriera politica di quel livello? Come ha potuto essere scelto quattro volte per incarichi di massimo livello politico e istituzionale non avendo alle sue spalle una corrente che lo sostenesse in una Dc che sulle correnti ci viveva?
Queste domande sono rimaste finora senza risposte. Ne azzardo una: la Dc in alcuni momenti della sua storia ebbe bisogno di delegare responsabilità importanti a uomini sciolti dalla struttura correntizia del partito. Quella delega attutiva lo scontro interno o addirittura lo congelava per un periodo che servisse a far riprendere fiato a tutti. Sceglievano uomini “en reserve” che di tanto in tanto entravano in scena per poi uscirne in attesa della prossima occasione.
Così accadde con Leone, presidente di governi balneari, presidente della Camera e poi al Quirinale. Così si spiega anche la collezione di incarichi di Andreotti, il quale nel partito fu sempre molto debole. Andreotti tuttavia fu un tessitore di contatti, di scambi di favori, di un sistema di potere che ebbe i suoi punti di forza nelle minoranze di tutti i partiti. La sua tecnica è stata quella di sparigliare il gioco; di questo fu maestro e su questo entrò a far parte del Gotha politico.
Anche Cossiga sparigliava, ma non per calcolo consapevole bensì per malattia. Da questo punto di vista è stato un personaggio pirandelliano e il dramma Enrico IV sembra scritto su misura anche se lui all’epoca di Pirandello non era ancora nato.
Naturalmente nelle fasi euforiche del suo male l’istinto del Narciso prendeva il sopravvento su ogni altra considerazione. I due ultimi anni del suo settennato al Quirinale furono dominati dal narcisismo. I giornali davano quasi quotidianamente la prima pagina alle sue sortite, ai suoi discorsi, ai sassolini che si toglieva dalle scarpe, ai colpi di piccone che assestava all’ordinamento costituzionale.
Oggi riposa in pace. Ha ricoperto tanti ruoli e tutti di grande importanza ma la sua vita è stata profondamente infelice ed è passata come una meteora nella politica italiana.
La Repubblica del 18 agosto 2010