Che ne è dell’inchiesta su Verdini? E di quella sulla P3? E Cosentino, l’ex sottosegretario sul quale pende un mandato d’arresto, e che continua a guidare il Pdl in Campania?
E che fine ha fatto Brancher, nominato ministro per cercare di sfuggire, grazie al legittimo impedimento, a un processo nel quale è poi stato condannato? E il ministero lasciato libero dal dimissionario, o meglio dimissionato Scajola, e ancora vacante? E il senatore Dell’Utri, condannato in appello a sette anni per concorso in associazione mafiosa e ancora ben ancorato al suo seggio in Senato?
Erano questi i temi che fino a pochi giorni fa occupavano le prime pagine dei giornali. Tutto svanito, tutto evaporato, tutto cancellato dall’inchiesta sulla casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An e finita in affitto al fratello della compagna di Fini. Sembra che l’intera «questione morale» ora sia ridotta solo a questo, solo alla casa di Montecarlo e alle presunte responsabilità di Fini.
Intendiamoci bene. Non è in discussione l’importanza della vicenda Fini-Tulliani. Anzi. «Il Giornale», sollevandola, ha dato una notizia; di più, ha fatto uno scoop, e quindi tanto di cappello. Quanto a Fini, ha davvero il dovere di chiarire fino in fondo ciò che non è stato ancora chiarito: anche prendendo per buona la sua autodifesa, resta da accertare chi ci sia dietro la misteriosa finanziaria che ha acquistato l’immobile. Il punto è un altro. È che c’è da chiedersi che razza di clima sia un clima in cui la politica vien fatta ormai esclusivamente a colpi di dossier sui peccati altrui; e un clima – quel che è peggio – in cui chiodo scaccia chiodo, e quindi ha dignità di attenzione soltanto l’ultimo, in ordine cronologico, degli scandali sollevati. Nei giorni scorsi Giuliano Ferrara ha scritto una riflessione interessante su dove ci sta conducendo questa politica del fango nel ventilatore. Ci permettiamo di aggiungerne qualche parola.
Il primo degli effetti perversi di questa politica (e di questa informazione) fatta di accuse e controaccuse, è appunto che sbandierando uno scandalo si ottiene l’effetto di cancellare i precedenti. Ma il secondo, forse finora sottovalutato, riguarda l’ancor più perverso risultato di attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre. Così, a chi contesta una condanna in appello per mafia, o un procedimento per camorra, o pressioni per condizionare gli incarichi di magistrati, si risponde che un altro ha forse favorito un cognato nell’acquisto di una casa, e tutto si azzera. E a chi ad esempio parla di una casa editrice che ha cambiato proprietà perché alcuni giudici sono stati corrotti (c’è una sentenza passata in giudicato che lo stabilisce) si replica di tacere perché il cognato di Fini gira con una Ferrari e ha uno polo griffata Ralph Lauren. Ripetiamo: non stiamo prendendo le difese di Fini, ma la domanda posta l’altro giorno da alcuni suoi uomini («Se deve dimettersi Fini, che peraltro non è ancora formalmente inquisito, perché non dovrebbe dimettersi Berlusconi con tutti i procedimenti che ha avuto e che ha tuttora?») non è priva di logica.
A uno scandalo si risponde contrapponendo un altro scandalo, vero o presunto. Dell’avversario non si risparmia alcun aspetto della vita, quella privata compresa. Coloro che, al tempo della questione Noemi-D’Addario, dicevano che non si mette il naso sotto le lenzuola altrui, sono gli stessi che hanno invocato e ottenuto le dimissioni di Marrazzo e del sindaco di Bologna Delbono, finiti nell’occhio del ciclone essi pure per storie di sesso; e hanno mandato all’ergastolo civile l’ex direttore di «Avvenire» Dino Boffo per un patteggiamento per molestie telefoniche. Che cosa c’entrasse poi Boffo nello scontro politico attuale, ogni persona dotata di un mimino di onestà intellettuale lo sa: zero.
«Moralista» è l’aggettivo-scomunica con cui si riduce al silenzio chiunque osi sollevare una questione morale. Il principio è che siamo tutti peccatori (c’è sempre qualche commentatore col turibolo che cerca di dare dignità cristiana a questo giochetto) e quindi nessuno può impartire lezioni, né chiedere chiarimenti, a chicchessia. Ora, non c’è dubbio che siamo tutti bisognosi di essere perdonati per qualcosa, non esistendo per alcuno l’impeccabilità. Ma l’imbroglio è appunto quello di equiparare ogni «peccato», di silenziare chi ti contesta una corruzione ricordandogli la sua multa per sosta vietata.
Questa battaglia contro i «moralisti» ha lo scopo neanche troppo recondito di cercare un’autoassoluzione, di portare a un «tutti colpevoli quindi tutti (anzi, noi) innocenti», di mettere ogni cosa sullo stesso piano, di confondere le pagliuzze con le travi. E il guaio è che molti italiani ormai si sono assuefatti, e a simili incantatori hanno finito per credere.
La Stampa 13.08.10