Duecento anni fa nasceva uno dei protagonisti della storia italiana. Fu liberale e anti-bigotto con un modello di Stato valido ancora oggi. Le sue lettere d´amore alla ballerina ungherese furono fatte bruciare. Senza la libertà di stampa, scrisse, le società restano ferme, anzi indietreggiano. Un bilancio su Cavour e su quanto ha fatto per portare il Piemonte e l´Italia dal regno della necessità a quello della libertà, della modernità, della laicità: è giusto farlo e aggiungerlo a quanto è stato sempre scritto su di lui e sulla stagione della nostra storia di cui fu protagonista, quella del formarsi di una nazione e di uno Stato. Anche la sua nascita, duecento anni fa, come in un presagio coincide con un´epoca sublime, l´apogeo imperiale napoleonico, che vide l´Italia per la prima volta e per un tempo troppo breve unita da una volontà politica, “governata” da un´idea di potere separata da qualunque dipendenza religiosa, contagiata dalle prime sorti magnifiche della rivoluzione industriale europea.
La sua formazione intellettuale avvenne però in un´epoca opposta, in quell´età della Restaurazione che egli subì nel clima irrespirabile e clericale del Piemonte sabaudo al quale cercò di sottrarsi sia per le spirituali ed etiche linee interne protestanti rappresentate dalla madre ginevrina Adele de Sellon, sia abbandonando la carriera delle armi per percorrere l´Europa: Parigi, Londra, Bruxelles, Ginevra, altre città inglesi e belghe, la Germania renana. Insomma l´occidente capitalistico e meccanizzato, dove le ciminiere e le officine, e una agricoltura rinnovata da investimenti di capitali, canali, strade, ponti, scambi, e le prime ferrovie gli davano la certezza che un paese come l´Italia, dalle cui sonnolente città (compresa Roma) e regioni non fu mai interessato e incuriosito, potesse essere riformato e modernizzato soltanto al seguito di grandi eventi europei ed esclusivamente dalla pressione delle forze morali sui governi.
Dunque non con insurrezioni e rivoluzioni, ma con la potenza di idee, programmi istituzionali, piani di sviluppo economico e tecnico da imporre per via politica a governi nati con il congresso di Vienna. La Restaurazione italiana era così descritta da colui al quale Cavour deve la carriera politica, Massimo D´Azeglio: «Con la fine dell´influenza napoleonica in Italia, si perdeva un governo che in fondo in fondo doveva, prima o poi, condurre al trionfo di quei principii che sono la vita delle società umane per tornare ad un governo di balordi, ignoranti, pieni di fumi e di pregiudizi».
Ebbene, tutta la vita di Cavour è stata ispirata all´implacabile razionalità, all´avversione ai tanti “pieni di fumi e pregiudizi” (a cominciare dal fratello Gustavo) che consideravano uno scandalo il liberalismo e libertino ogni rifiuto delle convenzioni banali. Anche la sua storia intima ne è la prova avendo egli vissuto gli anni più intensi, da giornalista militante fino a presidente del consiglio, nella felicità di un rapporto amoroso, riservato e delicato, con una ballerina ungherese, Bianca Ronzani, moglie di un ufficiale dell´esercito sardo. Fu una felicità piena, di cui resta traccia nelle poche lettere d´amore da lui scritte, sopravvissute alle tante dove la sensualità vitale e l´erotismo erano il dolce traslato della sua aggressiva ed esperta vitalità politica. Lettere numerosissime che molto tempo dopo la morte di Cavour furono acquistate appena in tempo da un antiquario pronto a diffonderle, e bruciate per ordine del re Umberto I. Perdita irreparabile per ragioni storiche e politiche. Queste lettere avrebbero gettato una luce diversa da quella perplessa e intimidita dei più noti biografi di Cavour, sulla sua decisiva scelta di politica estera fatta con l´alleanza tra il Piemonte e l´imperatore Napoleone III. Alleanza che dagli accordi di Plombières (1858) alla seconda guerra di indipendenza (1859), aprì la strada alle insurrezioni dell´Italia centrale, alla liberazione della Lombardia, ai plebisciti unitari, all´irruzione democratica di Garibaldi e dei Mille, all´unità d´Italia.
Quelle lettere, insomma, avrebbe reso giustizia al libertinismo come disincanto politico di Cavour (le cui radici intellettuali sono certamente anche nella Mandragola di Machiavelli) e alla diciottenne sua nipote, l´affascinante Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, al cui eros, diplomatizzato dallo zio, si devono la seduzione del sensibile imperatore dei francesi e la conclusione, attraverso la bellezza, di un progetto di grande spessore politico.
Anche in questo il liberalismo di Cavour è una filiazione della cultura e dell´autonomia intellettuale dell´Illuminismo francese, così come la sua idea delle riforme costituzionali era fondata sull´esperienza progressiva del sistema parlamentare inglese. Ma una riflessione attuale sull´opera di Cavour investe frontalmente la storia dell´Italia contemporanea, anche se le nostre classi dirigenti politiche, di maggioranza o di opposizione, non danno la sensazione di esserne partecipi nell´anno che ricorda sia la geniale impresa di Garibaldi, sia l´altrettanto geniale opera compiuta da Cavour e, come ricordava Gramsci, dalla sua evidente e importante egemonia “moderata” sulla rivoluzione risorgimentale. In fondo, Cavour iniziò la sua carriera politica come studioso di problemi dello sviluppo economico e, non a caso, come giornalista quando sul finire del 1847, alla vigilia della “primavera dei popoli”, fondò un giornale il cui titolo riassumeva il meglio del pensiero liberale e progressista italiano, dai versi di Leopardi agli scritti di Manzoni alle musiche di Verdi, Il Risorgimento.
L´attualità di Cavour si può dunque riassumere in quella dialettica della modernità e della libertà che egli trovava nel rapporto creativo tra politica, economia, spirito; nell´autorità culturale dello Stato; nell´assoluta laicità di tutti gli istituti pubblici; nell´eliminazione di interessi settoriali e marginali sugli interessi generali e, per finire, nella libertà di stampa. Una stampa gelosa della libertà dei cittadini perché, scriveva Cavour, «è mezzo principale di civiltà e di progresso pei popoli, senz´essa le società moderne, qualunque fossero i loro principali ordinamenti politici, rimarrebbero stazionarie, anzi indietreggerebbero».
La Repubblica 10.08.10