Nella torrida e torbida estate italiana, come purtroppo avevamo previsto, c´è dunque una sola fabbrica che non chiude per ferie, ma che invece produce la sua «merce» a ritmi sempre più serrati. È la berlusconiana «fabbrica del fango», che attraverso l´uso scellerato dei giornali di famiglia e l´abuso combinato di servizi e polizie sforna dossier avvelenati contro amici e nemici del presidente del Consiglio.
Da qualche giorno, com´era ovvio dopo la sacrilega rottura umana e politica con il padre-padrone del Pdl, il fango ha ricominciato a sommergere copiosamente Gianfranco Fini per la vicenda del famigerato appartamento di Montecarlo ereditato da Alleanza nazionale, rimesso sul mercato e poi finito nella disponibilità del cognato dello stesso presidente della Camera.
Nel metodo, diciamo subito che Fini ha compiuto un gesto di responsabilità, onorando il ruolo che ricopre e cercando di chiarire fin da subito tutti i punti della vicenda. Senza aspettare il corso dell´inchiesta della procura di Roma, senza urlare contro i giudici «comunisti» come fa quotidianamente il premier, ma anzi esprimendo la massima fiducia nel lavoro dei magistrati.
Fini dà prova di grande senso dello Stato. Equilibrio politico, rispetto del potere giudiziario, disponibilità a fare luce: così si comporta un uomo delle istituzioni, quando è in gioco l´onorabilità della sua carica e la trasparenza dei suoi comportamenti. Già qui si coglie l´abisso culturale e temperamentale che separa il presidente della Camera dal presidente del Consiglio, abituato a destabilizzare l´ordine giurisdizionale con i suoi furori ideologici e ad umiliare il potere legislativo con le sue leggi ad personam.
Nel merito della vicenda, le precisazioni riassunte da Fini in otto capitoli sembrano sufficienti a sgombrare quasi completamente il campo dagli equivoci e dai dubbi. Tranne che in un punto, che merita un approfondimento ulteriore. Dopo aver chiarito al punto quattro che nel 2008 Giancarlo Tulliani (fratello dell´attuale compagna del presidente della Camera, Elisabetta) lo aveva informato che «in base alle sue relazioni e alle sue conoscenze del settore immobiliare a Montecarlo, una società era interessata ad acquistare l´appartamento», Fini dichiara al punto sette che la vendita dell´appartamento è avvenuta il 15 ottobre 2008, e che lui non sa «assolutamente nulla» sulla «natura giuridica della società acquirente» né sui «successivi trasferimenti» dello stesso immobile. Solo «qualche tempo dopo» (conclude l´ex leader di An al punto otto) «ho appreso da Elisabetta Tulliani che il fratello Giancarlo aveva in locazione l´appartamento».
Ricapitolando. Alleanza nazionale riceve un lascito ereditario di diversi cespiti immobiliari. Uno di questi è a Montecarlo, stimato 450 milioni di vecchie lire e regolarmente iscritto nel bilancio del partito. È «fatiscente e non abitabile», come attestano le ispezioni fatte dal tesoriere del partito e dalla segretaria personale di Fini. Ma il luogo è di pregio, e qualche anno dopo (nel 2008) si profila un´offerta d´acquisto di cui Giancarlo Tulliani fa cenno a Fini. Poco dopo l´offerta si concretizza in 300 mila euro, più del valore stimato, spiega adesso il presidente della Camera. E così Fini, in quanto segretario di An, autorizza l´amministratore a vendere. Si tratta di un bene che appartiene a un partito, non sono in ballo soldi pubblici. E questa è una distinzione doverosa e fondamentale per inquadrare la vicenda.
Ma Fini, e qui è l´aspetto opinabile della sua ricostruzione dei fatti, non sa nulla, né di chi sia l´offerta iniziale di cui gli parla il cognato, né di quale sia la società che effettivamente poi compra l´appartamento, ne di chi ci andrà ad abitare nei mesi successivi, come proprietario o come locatario.
Quando si parla di case i politici non possono e non devono permettersi leggerezze, anche se avvengono nel rispetto della legge, come dimostra il caso D´Alema ai tempi della prima Affittopoli. Inoltre non sapere chi offre, chi compra e poi chi affitta una casa di Montecarlo, per il capo di un partito che la vende, genera un vago «effetto Scajola», capace di dichiararsi all´oscuro del chi e del perché gli sia stato pagato il famoso appartamento da un milione e 600 mila euro con vista Colosseo.
Ma nel caso di Fini e dell´appartamento venduto o affittato al cognato, a quanto pare, non si pone affatto un profilo penale. E non si può discutere nemmeno di un problema etico, ma tutt´al più «estetico». Sul piano formale, un segretario non é tenuto a sapere a chi il suo partito vende o da chi compra ognuno dei propri beni patrimoniali: c´è un amministratore che ha la delega per farlo. Sul piano sostanziale, il massimo che si può dire è che il presidente della Camera sia stato un po´ naif, visto l´iniziale coinvolgimento nell´affare del fratello della sua compagna. Ma questo, al momento, sembra essere tutto.
Al contrario, resta in campo il tema vero che si agita sullo sfondo di questo presunto «scandalo» ossessivamente inscenato sugli house-organ del premier. Vale a dire la tecnica del dominio e il sistema di potere che sovrintendono a queste chirurgiche operazioni di killeraggio mediatico e politico. Dopo Veronica Lario per la denuncia sul «ciarpame politico» e Fassino-Consorte per la telefonata su Bnl, dopo Dino Boffo per le critiche sulle escort e il giudice Mesiano per la sentenza sul caso Mondadori, dopo Marrazzo per il video sui trans e Caldoro per il dossier sui gay, la fabbrica del fango sta «macinando» Fini.
L´ex alleato, diventato avversario, deve essere infangato, delegittimato, distrutto. Così si regolano i conti della politica, nell´era della truce decadenza berlusconiana. Così si zittiscono i critici o i dissidenti, nell´epoca tecnicamente totalitaria dell´orwelliano «Partito dell´Amore». Tra minacce, intimidazioni e ricatti, c´è solo da chiedersi chi sarà la prossima vittima da annientare, in questo folle gioco al massacro della democrazia.
La Repubblica 09.08.10