Assisto a quello che sta accadendo in questi giorni sulla scena politica italiana, segnata da diversità e divaricazioni che si accentuano, con la testa piena degli argomenti evocati dal 150° anniversario della nostra unità nazionale, al quale mi sto dedicando. Mi chiedo allora se c’è un valore che ci possa aiutare e che possa fare da guida alla nostra politica in un’unità oggi addirittura contestata da secessionisti e neoborbonici, che neppure in passato ha mai goduto di straordinaria salute.
In Francia parlano orgogliosi di “Marianne au pouvoir”, mentre da noi l’Italia è “la patria debole degli italiani” (scrive Raffaele Romanelli), è una nazione “malcerta” (scrive Christopher Duggan) e già Giosuè Carducci, del resto, la vedeva brutta, «brutti fino i cappotti e berretti de’ soldati, brutto lo stemma dello Stato, brutti i francobolli».
Né si tratta della solita spocchia degli intellettuali, da sempre critici dell’Italietta e della modestia di tanti dei suoi reggitori. Venti milioni di italiani che a cavallo fra l’800 e il 900 lasciarono il paese (quasi la metà della nostra popolazione di allora) e la questione meridionale aperta ancora oggi sono una testimonianza di sicuro non elitaria delle promesse non mantenute e dei problemi non risolti dall’Italia unita. Ma sbaglia di grosso chi coglie in ciò le ragioni per contestare la stessa unità, ripudiando il potenziale di progresso comune che sin dall’inizio essa ha portato con sé e del quale è caso mai giusto dire che non è stato utilizzato come avrebbe potuto e che ha dovuto e deve anzi farsi largo tuttora fra diffidenze, resistenze e ostilità.
Prendiamo un tema di cui gli italiani sono nell’insieme orgogliosi, il riconoscimento in Italia dei diritti e delle aspettative di eguaglianza delle donne. Non a caso è il tema su cui sono meno disposti ad accettare le diverse culture familiari di cui sono spesso portatori immigrati provenienti da paesi più arretrati. Ed è anche una delle prime ragioni che portano ancora a condividere la missione militare in Afghanistan, dove le donne stanno già ricadendo sotto l’oscurantismo talebano, che le condanna alla casa e al solo insegnamento catechistico del Corano.
Ebbene, lo sappiamo in che condizioni erano le nostre donne prima dell’unificazione nazionale, lo sappiamo come le trattavano gli stati pre-unitari, dei quali c’è oggi chi osa (nella sua ignoranza) avere nostalgia, e lo sappiamo quanto è stata determinante l’Italia unita nell’avviare per loro una storia nuova?
Quando nacque il Regno d’Italia, noi condividevamo con Spagna e Portogallo il tasso di analfabetismo più alto d’Europa, sopra il 70% contro il 30% inglese e il 40/50% di Francia e Austria. E in questo mare di analfabeti il primato lo avevano le donne, che sapevano apporre la firma con una media di una contro cinque ovvero di una contro otto maschi, a seconda della zona, nella stessa Lombardia (nonostante la buona legislazione scolastica del Lombardo-Veneto).
Ma era ovvio che fosse così. Per donne destinate a lavorare, scriveva al tempo una illustre pedagogista, Giulia Molino Colombini, «la coltura della mente è inutile». E se le si faceva studiare, bastavano per loro il catechismo e le arti domestiche, spesso insegnate da donne analfabete.
Una nostra brava storica, Simonetta Soldani, ci ha raccontato come andarono le cose in Fare gli italiani (Il Mulino, 1993) e torna a occuparsene ora per un volume sull’unificazione che la Treccani sta approntando.
Con la legge Casati, approvata alla vigilia dell’unità e poi estesa all’intero paese, l’alfabeto e il sistema metrico decimale divennero i primi, fragili strumenti, per rompere il muro d’ignoranza dietro cui erano chiuse le donne.
Si cominciò a reclutare e a preparare donne come insegnanti – la maestra fu così fra le prime donne a uscire di casa e a entrare nel mercato del lavoro – e uscirono dal loro secolare destino le bambine da esse educate.
Non è che il mondo, da quel momento, sia cambiato d’incanto. Al contrario le resistenze e le difficoltà furono innumerevoli. Perduravano le resistenze notabilari a una formazione delle maestre rurali che non fosse limitata «al cuore e alle modeste virtù» (così l’abate Scavia, ispettore emerito delle scuole normali e tecniche).
Resistevano all’obbligo scolastico le stesse famiglie, molto spesso restie a rinunciare ai piccoli guadagni del lavoro minorile e poco convinte dell’utilità d’istruire le figlie. Né spingevano in senso opposto i Comuni, responsabili dell’istruzione elementare, perché avevano pochi soldi, dovevano provvedere ai locali e agli stipendi degli insegnanti e lo facevano spesso con desolante parsimonia.
Capitava così che a molte bambine l’istruzione fosse impartita nei vecchi convitti da suore, oblate e maestre pie, che continuavano ad «educarle alla preghiera e a tenere le mani occupate». Mentre, come avrebbe testimoniato una maestra diplomata a Firenze, vi erano regioni come la Sicilia dove la «lingua italiana presenta maggiori difficoltà che da noi la tedesca».
Ma tutto questo non impedì che il numero delle insegnanti di scuole pubbliche raddoppiasse fra il 1862 e il 1872, passando da poco più di 7mila ad oltre 14mila; che un ministro della Fubblica istruzione come Francesco De Sanctis pretendesse dalle scuole normali che preparavano le insegnanti lo stesso studio della grammatica e della storia con cui si formavano gli insegnanti maschi; che la scolarità femminile aumentasse più di quella maschile, aumentassero le scuole superiori femminili e, specie negli anni di governo della Sinistra, aumentasse il numero delle classi miste e quello delle insegnanti donne ad esse destinate.
È vero dunque che non fu una marcia trionfale e fu anzi una corsa a ostacoli (vinta in più momenti dagli ostacoli). Ma senza l’unità non ci sarebbe stata neppure questa corsa. Chissà quando e chissà come la lingua di Dante sarebbe riuscita ad assorbire i dialetti, cessando di essere una lingua solo scritta e ancora più elitaria di quanto a lungo è rimasta.
Chissà quando e chissà come le donne italiane avrebbero potuto porre le premesse di quell’emancipazione della quale, in questo 150° anniversario, possiamo tracciare un bilancio che ha ormai molte poste all’attivo.
Italia patria debole e nazione malcerta? Se è vero, e nella misura in cui è vero, è una ragione in più, non in meno, per ritrovare in noi il filo che presero a dipanare le prime maestre dell’Italia unita, ragazze spesso orfane o di famiglie troppo povere per mantenerle, che ebbero il coraggio di non chiudersi nelle cure domestiche (e di non essere più viste perciò come ragazze da marito), e andarono a vivere da sole per fare scuola a bambine a cui aprirono comunque il futuro.
Un futuro del quale, senza quel filo e cioè senza la convinta adesione alle responsabilità che dobbiamo assumerci insieme, rischiamo oggi di perdere il senso.
Il Sole 24 Ore 08.08.10