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"Temistocle Martines, l'uomo che passò la vita a difendere la Costituzione", di Michele Ainis

No, non c’è un uomo che potrà salvarci dalla nostra crisi etica, economica, sociale. E anzi faremmo bene a smetterla d’appendere ogni speranza all’Uomo della Provvidenza. Ne abbiamo già incontrato uno, e dovrebbe esserci bastato. Il riscatto dei popoli fiaccati da una lunga malattia dipende dalle nuove generazioni che subentrano in luogo delle vecchie, dipende dall’impegno di chi fin lì si limitava ad osservare lo spettacolo, in conclusione dipende dai popoli medesimi, non da questo o quel condottiero.

Però se devo fare un nome, eccolo: Temistocle Martines. Era il mio maestro, ed era anche l’autore del manuale di diritto costituzionale sul quale si sono formati per decenni gli studenti di Giurisprudenza. Pure i nuovi arrivati continuano a studiarlo, dato che il manuale di Martines viene aggiornato a cura d’un altro suo allievo, Gaetano Silvestri. Tuttavia non è per ragioni d’appartenenza accademica che cito qui il suo nome. Né perché pensi che quel vecchio gentiluomo siciliano dalla schiena un po’ ingobbita, se fosse ancora vivo, saprebbe indicarci una via d’uscita dalla crisi. D’altronde Martines era un uomo problematico, allevava dubbi, non dettava soluzioni.

Ma sta di fatto che tra le nostre sciagure nazionali c’è l’assedio che via via si stringe attorno alla Costituzione, e sta di fatto inoltre che mancano gendarmi che sappiano ricacciare indietro gli invasori. Un assedio scandito da attuazioni tardive, disapplicazioni sistematiche, prassi distorsive, falsi storici, controriforme abbozzate in fretta e furia e per lo più abortite. Il capo d’accusa nei confronti dell’art. 41 (impedirebbe la libertà d’impresa: e perché mai?), che in quest’estate del 2010 risuona in lungo e in largo dentro le mura del Palazzo, non è che l’ultimo esempio della malafede con cui la politica scarica sulla Costituzione tutte le colpe del proprio fallimento, della propria genetica impotenza a liberarci dalle lobby burocratiche o affaristiche. Ecco perché in ultimo l’Italia è diventata un paese senza legge: non c’è spazio per la legalità se la legge più alta viene costantemente ignorata o disattesa.

Martines aveva vent’anni nel 1947, quando la Carta repubblicana fu approvata. Verso quella Carta la sua generazione nutriva perciò un legame sentimentale, oltre che intellettuale. Lui poi trasformò questo legame nella propria professione, nel suo mestiere di studioso e di docente. «Sono fra gli ultimi romantici – disse di sé pochi mesi prima di morire, in un dibattito a Bologna sulle riforme costituzionali – e difendo l’attuale Costituzione, che è una Costituzione ancora valida. La difendo perché non è vero che la Costituzione non ha funzionato; non è vero che bisogna modificarla perché non consente stabilità di governo. Questa stabilità in Italia non c’è stata perché il sistema dei partiti non l’ha consentito. E allora è il sistema dei partiti che semmai bisogna modificare, non già la Costituzione, che certamente non lo ha voluto così com’è adesso e non può quindi esserne ritenuta responsabile».
Insomma, è bene che la legge fondamentale sia attuata sino in fondo, prima di pensare a come riformarla: o almeno era questa la sua profonda convinzione, che rifletteva d’altra parte il concetto a lui altrettanto caro della Costituzione come un divenire, come sorgente di processi normativi che per l’appunto andrebbero esplorati nelle loro potenzialità inespresse, per svilupparli magis ut valeant, al meglio della capacità espansiva della nostra Carta.

Da qui l’avversione verso la Costituzione “materiale”, evocata a sproposito – oggi come ieri – per giustificare il trionfo della forza sulle regole. Ma che cos’è quest’altra Costituzione di cui mai nessuno ha letto un rigo, che nessun presidente ha mai promulgato? Mortati vi scrisse un libro sopra nel 1940, allo scopo d’illustrare come ogni documento costituzionale viva nella prassi dei rapporti politici e civili, anziché nei caratteri di piombo delle Gazzette ufficiali. Giusto, se il concetto in questione aiuta la scienza giuridica a liberarsi da un eccesso d’astrattezza, a puntare gli occhi sulla terra. Giusto due volte, se serve a indicare il mutevole atteggiarsi della storia rispetto alle possibilità interpretative cui si prestano le parole vergate dai costituenti. Sbagliato tre volte, quando viceversa vi si trae argomento per legittimare letture deformi e deformanti rispetto alle parole della Costituzione, e anzi contro quelle medesime parole.

Non era forse questa l’intenzione di Mortati, benché in Italia nel 1940 fosse in vigore lo Statuto albertino, che il Regime aveva fatto diventare carta straccia. Ma dopotutto la sua teoria si prestava a molti equivoci. C’è una pagina di Martines – data alle stampe nel 1957 – in cui l’allora giovane studioso contesta un’affermazione di Mortati, ossia che in caso di contrasto fra Costituzione formale e materiale sia quest’ultima a prevalere sulla prima. No, dice Martines, è vero casomai il contrario, perché la forma scritta assicura stabilità e certezza delle regole. Da qui la conclusione: «Nel caso in cui, pertanto, si produca una frattura fra una norma formalmente costituzionale e la sottostante Costituzione materiale, la prevalenza spetterà alla prima, come alla sola formalmente giuridica, che (sia pure svuotata di ogni contenuto) continuerà ad essere valida in quanto appartenente all’ordinamento sino a quando dall’ordinamento stesso non verrà eliminata».

C’è in questo passo, nei termini più netti, la distinzione tra il fatto e il diritto, tra l’essere e il dover essere. Tale distinzione s’innesta nel codice genetico del costituzionalismo, che non a caso ottenne il suo battesimo con l’avvento delle Costituzioni scritte, dopo le due grandi rivoluzioni – quella francese e quella americana – di fine Settecento. Da allora in poi non è più il re che fa la legge, ma è la legge che fa il re. O almeno dovrebbe, in uno Stato di diritto. Ma in Italia il diritto è ormai una foglia di fico sul corpo nudo del sovrano. Anche per responsabilità dei costituzionalisti, certo, del loro realismo malinteso, che in molti casi maschera in realtà un abito servile verso il principe di turno, senza troppe differenze fra principi di destra e di sinistra.

Invece Martines non fu mai iscritto a un partito, e per ricompensa non rivestì mai gli uffici pubblici che i signori di partito dispensano ai fedeli. Le sue cariche erano tutte accademiche: preside di facoltà, direttore dell’Istituto di studi sulle regioni del Cnr, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani. L’università era la sua casa, i suoi allievi la sua seconda famiglia. Tanto che nel testamento divise fra loro la propria sterminata biblioteca, affinché ciascuno ne conservasse un ricordo tangibile. Ma quella abitata da Martines era un’altra università, anche se dalla sua morte sono passati meno di tre lustri. Lui venne a insegnare alla Sapienza di Roma perché a quel tempo le “chiamate” si decidevano in base alla competenza, non all’appartenenza. Ora funzionano come al supermercato: un premio di fedeltà per i clienti affezionati.

C’è insomma una corruzione dei costumi accademici, oltre che civili. Tu vai per convegni, sfogli riviste e almanacchi, e incontri carrieristi o specialisti, più spesso l’uno e l’altro tipo umano sotto la medesima divisa. Martines, e gli altri della sua generazione, nutrivano una concezione totale del diritto costituzionale, s’interessavano alle fonti normative, ma altresì alla storia delle istituzioni, alle libertà, all’organizzazione dei poteri. Ora, quando va bene, c’è qualcuno che sa tutto su niente, su un singolo istituto dal quale attinge inchiostro per inondare l’universo di pagine quasi sempre incommestibili. Gente pronta a barattare il principio con il principe, tanto il primo non ti riempie la scodella. Sarà per questo che Martines non ha lasciato beni al sole. Morì il 2 giugno 1996, nel giorno in cui la Repubblica celebrava i suoi primi cinquant’anni. Sta a noi raddoppiare quest’anniversario.

LA FAMIGLIA
Temistocle Martines nasce a Messina nel 1926, figlio di Giuseppe (ingegnere) e Concetta Lombardo (nipote di Ettore Lombardo Pellegrino, giurista e parlamentare). Si laurea con una tesi in Diritto romano in Giurisprudenza a Messina nel 1948. Inizia subito a svolgere attività di ricerca come volontario presso l’università di Catania. Segue il suo maestro Paolo Biscaretti di Ruffia a Pavia. Dal settembre 1951 lavora presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, come vice segretario nel direttivo dei servizi spettacolo, informazioni e proprietà intellettuale, fino al dicembre 1954. Insegna per quasi trent’anni alla facoltà di Giurisprudenza di Messina, dapprima Diritto costituzionale, ma poi anche Contabilità di Stato e Diritto pubblico regionale.

LA CARRIERA
Insigne costituzionalista, fonda a Messina una delle più importanti scuole giuspubblicistiche nazionali ed europee. Professore ordinario dal 1963, è tra i fondatori della facoltà di Scienze politiche a Messina, di cui diventa preside succedendo al cognato Lorenzo Campagna, illustre civilista prematuramente scomparso.
Nel 1981 diventa preside di Giurisprudenza, sempre a Messina, incarico che mantiene fino all’ottobre 1982. A novembre lascia la sede messinese per trasferirsi alla facoltà di Giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma. Nel novembre 1983 viene chiamato a dirigere l’Istituto di studi per le regioni del Consiglio nazionale delle ricerche, carica che manterrà fino alla sua morte. Nel novembre 1995 viene eletto alla presidenza dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. È per molti anni presidente della sezione messinese di Italia nostra e per una breve parentesi (dal maggio ’85 al novembre ’87) diventa anche consigliere comunale come indipendente di sinistra.
In occasione del referendum del 1993 sulla legge elettorale si schiera per il mantenimento del sistema proporzionale.
È stato tra i fondatori dei comitati per la Costituzione, promossi da Dossetti.
Muore il 2 giugno 1996, dopo una lunga malattia, nella sua città natale, lo stesso giorno in cui la Repubblica compiva cinquant’anni.

LE OPERE
Ha scritto praticamente su tutti gli aspetti del diritto costituzionale ed è stato autore di fortunati manuali universitari. Le sue Opere sono ora raccolte in quattro volumi (Milano, 2000, Giuffrè).
È conosciuto per il suo manuale di Diritto costituzionale (Giuffrè), e per il Codice costituzionale (2002, Laterza). Utilizzati anche Diritto pubblico (Giuffrè) e Lineamenti di diritto regionale, scritto insieme a Antonio Ruggeri e Carmela Salazar (Giuffrè).

LA FACOLTÀ
La facoltà di Giurisprudenza di Messina è tra le più prestigiose della Sicilia. Qui si laurearono alcune delle più grandi personalità della classe dirigente siciliana e nazionale. Fu la prima facoltà ricostruita dopo il terremoto del 1908. Tra i docenti si sono succeduti personaggi illustri come Vittorio Emanuele Orlando, considerato il fondatore del diritto costituzionale in Italia, a Gaetano Silvestri, giudice della Corte costituzionale.

Il Sole 24 Ore 05.08.10