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"Donne e lavoro, la lunga rincorsa a ostacoli", di Marina Iacovelli

L’occupazione femminile in Italia ha registrato un forte incremento fino al 2003 quando, sull’aumento totale degli occupati, ben un terzo era costituito da lavoratrici. Questo trend si è però interrotto e, nel 2009, il tasso di occupazione delle donne è sceso al 46,4 per cento, un valore molto lontano da quello dell’Unione europea (58,6 per cento). È quanto emerge dal documento “Il lavoro delle donne in Italia. Osservazioni e proposte”, approvato all’unanimità dall’Assemblea del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Cnel, il 21 luglio scorso. “Nonostante il nostro paese possa vantare una delle più avanzate legislazioni a favore delle donne – spiega la consigliera Aitanga Giraldi – , il permanere di problemi strutturali nel nostro mercato del lavoro, e l’ormai annoso dualismo tra Nord e Sud, pongono all’attenzione del legislatore e degli operatori economici e sociali molte sfide. Il Cnel ha da tempo inserito, quale priorità della propria attività istituzionale, l’impegno a favore della maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e del rafforzamento del loro ruolo nella vita economica e sociale del paese.

Nonostante l’esigua presenza di consigliere (8 su 121 componenti, di cui 4 nominate dalla Cgil e 3 esperte nominate dal presidente della Repubblica), a partire dalla precedente legislatura, si è introdotto il metodo del mainstreaming nella stesura dei principali documenti del Cnel, metodo che ha evidenziato una crescente sensibilità verso l’ottica di genere”. Il documento approvato è dunque la conclusione, a fine consigliatura, di un lungo percorso di riflessione e di attività. “Un lavoro fatto nella convinzione – sottolinea Giraldi – che le donne sono una risorsa fondamentale non solo per lo sviluppo economico e sociale del nostro paese, ma soprattutto per un dopo crisi innovativo e competitivo”. Il documento è suddiviso in tre parti. La prima analizza l’evoluzione della presenza femminile nel mercato del lavoro negli ultimi 10 anni ed evidenzia gli ostacoli e le opportunità che le donne incontrano in quest’ambito. La seconda prende in esame la situazione previdenziale delle donne, che è il risultato evidente delle difficoltà incontrate nel mercato del lavoro. La terza parte contiene 10 proposte che vanno dall’occupabilità alla conciliazione, dalla previdenza obbligatoria e complementare al bilancio di genere nella Pubblica Amministrazione.

Le donne e il lavoro nell’Italia del nuovo millennio Nel nostro paese la crisi ha investito una situazione già difficile dell’occupazione femminile, contribuendo ad accentuarne le criticità storiche. Le conseguenze sono state particolarmente evidenti nel Mezzogiorno, che ha assorbito quasi la metà del calo complessivo delle occupate (-105 mila donne) e che già presentava bassi tassi di occupazione femminile. In questa area il tasso di occupazione è del 30,6 per cento, contro il 57,3 per cento del Nord-est. Si è ulteriormente abbassato il tasso di occupazione delle donne con titolo di studio inferiore al diploma di scuola secondaria superiore, che nel Mezzogiorno raggiunge un livello appena superiore al 20 per cento. Solo le laureate riescono a stare al passo con i livelli europei, se si escludono però le giovani, che continuano a incontrare difficoltà all’ingresso nel mercato del lavoro.

Si accentuano anche le difficoltà delle donne in coppia con figli: considerando la classe di età 25-54 anni e assumendo come base le donne senza figli, i tassi di occupazione sono inferiori di 4 punti percentuali per quelle con un figlio, di 10 per quelle con due figli e di 22 punti per quelle con tre o più figli. Tale andamento non si riscontra nei principali paesi europei. A tutelare una parte delle famiglie con figli dal rischio di perdita del lavoro di uno dei genitori è stato il ricorso alla cassa integrazione. Al tempo stesso la famiglia ha svolto il consueto ruolo di ammortizzatore sociale, sopportando il peso della mancanza di occupazione dei figli. L’azione congiunta di questi due aspetti ha quindi mitigato gli effetti della crisi, almeno per il momento. Uno dei principali ostacoli per l’occupazione delle donne è la scarsità dei servizi sociali, soprattutto nel Meridione. Mentre negli altri paesi europei l’occupazione femminile aumenta al crescere dell’età dei figli, con un tipico andamento a “U” (cioè con una rapida discesa nei 3 anni immediatamente successivi alla nascita del figlio e un successivo graduale ritorno al lavoro), in Italia continua a diminuire.

La probabilità di non lavorare per 18- 21 mesi dopo la nascita di un figlio è di quasi il 50 per cento ed è influenzata in maniera significativa dall’età della madre: le madri meno giovani rientrano più frequentemente al lavoro, mentre quelle sotto i 25 anni sperimentano maggiori difficoltà. Per le donne non occupate la probabilità di entrare nel mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio è quasi nulla a qualsiasi età. Il grado di istruzione è un fattore molto importante: sono le donne con istruzione elevata quelle che rientrano nel mercato del lavoro a pochi mesi dalla nascita del figlio, mentre le donne con bassa e media istruzione spesso non rientrano affatto. A 4 anni dalla nascita del bambino, infatti, il 60 per cento delle donne con bassi livelli di istruzione è ancora fuori dal mercato del lavoro.

Le donne con un titolo di studio più elevato tendono inoltre a conciliare meglio lavoro e famiglia: sono in grado di mobilitare più risorse, beni e servizi e tempo dei familiari (inclusi i partner che collaborano di più nelle coppie più istruite), e di utilizzarle in maniera più efficiente e razionale. Dedicano meno tempo al lavoro domestico e più tempo ai figli, contribuendo in questo modo a ridurre gli effetti negativi sui bambini piccoli dovuti all’assenza di ambedue i genitori. Nel panorama internazionale l’Italia rappresenta un’eccezione anche rispetto all’uso del tempo. Le donne italiane, sommando sia il tempo per il lavoro remunerato che quello per il lavoro non remunerato, lavorano in realtà ben più degli uomini. Il 77 per cento del tempo dedicato al lavoro familiare è a carico femminile, a testimonianza di una persistente e significativa asimmetria di genere.

Pur essendo i padri un po’ più collaborativi rispetto al passato, i cambiamenti sono lenti e la divisione dei ruoli è ancora molto rigida. I dati recenti, infatti, dimostrano che i maggiori cambiamenti nella divisione del lavoro tra i due generi sono avvenuti nell’ambito della cura dei figli, molto meno invece nell’ambito del lavoro domestico vero e proprio. Il lavoro delle donne è fondamentale per difendere le famiglie e i figli dal rischio di povertà. Uno studio che analizza le situazioni di povertà reddituale delle famiglie europee mostra come quelle monoreddito con figli minorenni siano la tipologia più vulnerabile. Il loro reddito medio pro capite è inferiore del 30 per cento a quello delle famiglie a doppio reddito.

Favorire l’occupazione femminile ha poi ricadute positive sia sulla formazione delle coppie sia sulla loro stabilità. Inoltre l’incremento dell’occupazione femminile risponde ai desideri delle donne. Meno del 20 per cento delle occupate tra i 35 e i 45 anni, infatti, concorda con l’affermazione che essere casalinga consente alla donna di realizzarsi quanto un lavoro retribuito. E anche tra le casalinghe questa percentuale non supera il 30 per cento. Ciò significa che la grande maggioranza delle casalinghe ritiene che la propria condizione corrisponda a una rinuncia personale in termini di opportunità di realizzazione. Tutti i più recenti studi economici, infine, spiegano come la riduzione del divario occupazionale di genere possa essere un importante motore di sviluppo. Lo spreco delle risorse femminili caratterizza infatti i paesi in declino come il Giappone e l’Italia.

La situazione previdenziale delle donne in Italia Il documento del Cnel, elaborato dopo un ciclo di audizioni con Inps, Inpdap, Ipost, Enpals e Inpgi, conferma che l’esistenza di discriminazioni salariali tra donne e uomini, dovuta alle caratteristiche del mercato del lavoro e alle condizioni dell’occupazione femminile (carriere discontinue, “tetto di cristallo”, lavoro di cura, ecc.), si traduce in differenti trattamenti previdenziali, che rendono le donne anziane normalmente più povere degli uomini loro coetanei. Pur in presenza di un’anzianità anagrafica maggiore di quella degli uomini, infatti, l’anzianità contributiva risulta inferiore a quella dei colleghi maschi. Un’ulteriore criticità riguarda la previdenza complementare: il decreto legislativo n. 5/2010, infatti, ha introdotto un sistema di calcolo attuariale diversificato per uomini e donne ma che penalizza queste ultime.

Per quanto riguarda il recente aumento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne nel settore pubblico, il Cnel ricorda che, prima della riforma del 1995, le donne dello Stato già andavano in pensione a 65 anni. Con quella riforma, in analogia con quanto previsto per il settore privato, il requisito di vecchiaia per le donne si è abbassato a 60 anni, con la facoltà di permanere in servizio fino a 65. Nella realtà, sottolinea il Cnel, le donne, sia nel privato sia nel pubblico, rimangono in servizio oltre i 60 anni di età e, in genere, più a lungo degli uomini, nel tentativo di compensare la discontinuità nelle loro carriere professionali. Il Cnel ricorda inoltre che la differenza di età pensionabile tra donne e uomini risponde a un criterio di “discriminazione positiva” nei confronti delle donne: un modo di riconoscere e valorizzare la differenza femminile, stabilendo un “vantaggio” per le donne rispetto agli “svantaggi” da esse incontrati nel corso della loro carriera (minor reddito e “doppio lavoro”).

In conclusione, la donna italiana lavora meno a lungo e fa meno carriera rispetto all’uomo, versa meno contributi, percepisce redditi pensionistici sensibilmente inferiori a quelli dell’uomo, percepisce in prevalenza pensioni ai superstiti o prestazioni a carattere assistenziale a carico della fiscalità generale, risulta maggiormente esposta al rischio di povertà. Inoltre, vivendo in media più a lungo dell’uomo, corre un maggior rischio di vivere l’ultima parte della vita in stato di disabilità (3,1 anni per gli uomini e 5,4 anni per le donne).

da www.rassegna.it