Ci sono in giro grossi (e interessati) equivoci. Che ogni crisi parlamentare debba avere fatalmente una soluzione elettorale. Che ogni dissenso nella maggioranza parlamentare «uscita – come si dice – dalle urne» debba necessariamente portare allo scioglimento delle Camere. Che ogni “diverso” esercizio delle funzioni di rappresentanza parlamentare (quella che la Costituzione vuole «senza vincolo di mandato») rientri nella negativa retorica del “ribaltone”(o del tradimento).
Sono equivoci che hanno radice in un diffuso quanto perverso “credo” illiberale: la scomparsa del Parlamento. La cancellazione delle assemblee parlamentari come luogo di rappresentanza effettiva e concreta della società nazionale. Con la connessa illusione che questa società sia pietrificata e immutabile con il flash del momento elettorale. E che il governo allora eletto ne sia l´unico legittimo rappresentante.
La società cambia, invece, ogni giorno. Non a caso il mito di Proteo domina, da qualche millennio, la politica. Quali ne siano i difetti e gli eccessi (e ce ne sono tanti) il Parlamento, per la sua stessa struttura, non recide mai il cordone ombelicale che lo lega alla mobile società che rappresenta: anche per le sue spinte al mutamento. Perfino nei peggiori suoi momenti, il Parlamento non è mai del tutto auto-referenziale. È sempre il «porticato tra le istituzioni e la società civile», come lo definì, fulmineamente, Hegel.
Non è la stessa cosa per il governo, con le sue separatezze istituzionali. Se l´intermediazione parlamentare viene meno o entra in sofferenza, la diversa volontà governativa non può prevalere come decisione finale. La logica delle democrazie non è fatta di plebisciti, di acclamazioni e di elezioni a comando: fuori della loro periodizzazione costituzionale. Dove non è stato finora così, si sta cambiando. La coalizione liberal-conservatrice in Gran Bretagna ha proposto a Westminster la durata fissa delle legislature: a meno che non ci sia una decisione dei due terzi dei Comuni per lo scioglimento anticipato oppure si constati la impossibilità di formare un governo entro quattordici giorni da un voto di sfiducia.
Ma allora perché, invece, da noi viene così degradata questa funzione di bilanciere del Parlamento? Perché la bandiera dell´elettoralismo è continuamente agitata contro il parlamentarismo? Vi concorrono due false opinioni.
La prima è quella di chi ritiene che l´elettore vota solo per darsi un governo e non anche per darsi un Parlamento. È una tesi rinvigorita dagli artifici contenuti nell´attuale sistema elettorale per creare comunque una maggioranza parlamentare; dalla personalizzazione (per legge) delle coalizioni in campo; dal meccanismo di nomina dei singoli parlamentari (senza vera scelta degli elettori). E, tuttavia, la tesi non sta in piedi. Vi è certo l´esigenza, fondamentale per ogni vitale democrazia, di darsi un governo che governi. Vi è certo la giusta, perdurante necessità popolare di rendere chiara e semplice la politica con scelte bipolari ragionevoli. Ma questi due bisogni democratici non sono in contrasto con la necessità di un vero Parlamento.
Perché il diritto al Parlamento è anche – e forse innanzitutto – il diritto degli elettori che non hanno votato per il vincitore: il diritto all´opposizione. Ma c´è pure il diritto di tutti gli elettori ad avere un governo: anche quando il sistema elettorale, per quanto forzato esso sia, non dia la maggioranza ad una delle forze in campo. Allora è il meccanismo naturale della democrazia che spinge a cercare nel Parlamento le intese e i compromessi possibili tra le rappresentanze di parti fino a ieri contrapposte. Il Parlamento come garanzia di funzionamento della stessa democrazia. È accaduto, appena ieri, in Germania, in Gran Bretagna. L´idea del “voto unico”, del Parlamento come ruota di scorta del governo “eletto” è una idea profondamente sbagliata. Non solo perché contro la nostra Costituzione scritta ma perché non corrisponde a come vanno realmente le cose del mondo. Perfino quando vi è un presidente direttamente eletto come in Francia, tutte le ultime riforme costituzionali sono state nel senso di un rafforzamento di istituti e prerogative parlamentari.
La seconda tesi è di chi ritiene che il patto di coalizione elettorale sia immodificabile in Parlamento, a meno che non si voglia ritornare alle urne. Anche qui è evidente l´errore. La realtà dei fatti dice invece che pietrificati nelle loro specifiche funzioni di collante di cartelli elettorali, sono semmai proprio gli accordi di coalizione. Molto spesso: “buoni per vincere, non per governare”. Spetta, invece, precisamente a Parlamento e governo rendere politicamente e giuridicamente praticabili quegli accordi.
In tutto questo la retorica del “ribaltone” (il termine che Giovannino Guareschi genialmente inventò: ma per quel 25 luglio…) non c´entra proprio. Non c´entra per il Parlamento che fa il dovere suo. E non c´entra neppure per il governo che si rimpasta o aggiusta il suo programma originario. Siamo nella normale prassi delle democrazie: che vale (dovrebbe valere) per la “prima”, per la “seconda” e per ogni Repubblica che sarà dato agli italiani di vivere (sempre, ovviamente, che sia una Repubblica).
La Repubblica 07.08.10