memoria

Agosto 1980 "Io non dimentico" di Stefano Benni

Mi sembra di avere scritto su questo ricordo, ma non so quando. Dieci, venti anni fa. Ma quando ricordo è adesso. Sento la notizia da Brunella, che compra il giornale la mattina presto a Santa Maria di Leuca. Non occorre parlare o mettersi d’accordo. Partiamo, con una vecchia Citroen, e guidiamo alternandoci per ore e ore. Quando arriviamo, siamo ancora nel pieno dei soccorsi, ancora scavano.
Trent’anni fa Bologna era diversa. Era stata colpita perché era diversa, perché era una speranza. Ora è una città come tante del Nord Italia, né brutta né bella. Ma tante persone ricordano quella data. E non certo per nostalgia del dolore. Per la speranza che combatté quel dolore. Perché qualcosa di quella speranza è rimasta. Ci sono state altre stragi, altro sangue, altro dolore inutile. L’ultima strage, quella della legalità, si consuma non con la violenza delle bombe, ma non l’astuzia della propaganda e della potenza economica. Possiamo disquisire se le persone sono le stesse, o altre, o nuove, o migliori o peggiori. Quello che è successo a Duisburg in nome del cosiddetto show, è una strage. Possiamo distinguere dicendo che non è stata pianificata, che tutti sono pentiti. Ma per chi ha perso delle persone care, è difficile distinguere, fare una scala del dolore, trovare qualche consolazione.

Quello che mi è facile invece, è ricordare chi ha ancora speranza. Pensare a quelli che scavavano, a quelli che scavano ancora. Quelli che sperano non ci sia il nome di una persona cara di un elenco di vittime. Quelli che si sentono responsabili, e cercano di evitare stragi future. Quelli che vogliono la verità. So che sono ancora tanti, anche a Bologna. Forse non sono più rappresentati, forse la loro speranza è stata ferita e irrisa, forse qualche volta pensano: perché scavare quando tutto crolla?

Ma io so che queste persone ci saranno sempre, e mi conforta. Ogni volta che torno a Bologna, vedo i nomi sulla lapide della stazione. Qualcuno si ferma e si interroga, qualcuno nemmeno sa cosa significano quei nomi. Qualcuno neanche li guarda. Ma qualche anno fa, vidi una donna straniera entrare, e mettere dei fiori sotto la lapide. Le parlai: non era una parente, era una donna che faceva solo un gesto di ricordo, di rispetto, non davanti alle autorità, ma davanti ai suoi sentimenti. Al di là di ogni retorica e cerimonia, c’è sempre la forza di queste persone che sperano. E io spero che Bologna le ascolti molto di più, che sappia ritrovare il rapporto con la sua energia passata, che non ne faccia una statua in un museo.
Anche io, nel mio piccolo sforzo, scavo ancora, anche se dovrei e vorrei farlo di più. E scavando ho ritrovato il ricordo di quegli anni e posso dirlo forte: non dimentico e non voglio dirlo solo il due agosto.

La Repubblica 01.08.10

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“Bologna 2 agosto 1980 Corpi e voci per un massacro”, di Michele Smargiassi

Un gelato per rinfrescarsi, un panino per quel languore allo stomaco. Una passeggiatina nervosa lungo il binario del treno in ritardo. Una scappata al gabinetto. Un salto a controllare il tabellone degli orari. Quant´è grande la chance che ti concede il destino? Quanto è largo il confine tra la vita e la morte? Nessuno lo può sapere: è cieco come il caso. Eppure da trent´anni, e domani alle 10.25 saranno trenta tondi, decine di uomini e donne continuano a farsi quella stessa tormentosa domanda che non ha risposta, la domanda del sopravvissuto, la domanda che nutre ferocemente il suo inevitabile, ingiusto, insuperabile senso di colpa: perché non io?
La bomba del 2 agosto 1980 nella sala d´aspetto della stazione ferroviaria di Bologna fece ottantacinque morti. Ma fece anche duecento feriti. I sopravvissuti sono loro e solo loro: quelli che stavano né troppo vicino né troppo lontano dal fornello dell´esplosione. Gli altri, gli incolumi, sono semmai i testimoni: è dura anche per loro fare i conti con il trauma del ricordo, ma quei metri, o minuti, cambiano tutto. Il sito di Repubblica Bologna da settimane è sommerso di rievocazioni private di chi ricorda quel giorno, piene di pietà civile ma anche dell´inconfessato sollievo di un «potevo esserci anch´io». Ma quei duecento c´erano davvero, lì, nella zona grigia di polvere tra condanna e salvezza, entrambe insensate, entrambe irrazionali. Come Paolo Sacrati che andava in vacanza nelle Marche con mamma e nonna: le schegge hanno ucciso le due donne, e lui no. Inutile chiedersi il perché, impossibile non chiederselo.
Per questo Martino Lombezzi, il fotografo, ha faticato tanto a convincere alcuni, solo alcuni, dei feriti di quel giorno a raccontarsi e a mostrarsi, e non solo perché il tempo è passato e la schiera si è ridotta. Molti, anche tra quelli riuniti dall´Associazione familiari delle vittime, non sono mai riusciti a farlo, neppure con i propri familiari. Molti hanno cominciato a farlo solo dopo anni di terapia. Alcuni hanno accettato solo adesso, con sofferenza. Otto di loro appariranno in immagine sui pannelli della mostra del trentennale, Io sono testimonianza, ciascuno in forma di dittico: il proprio ritratto e, accanto, la fotografia di un oggetto legato al giorno che gli stravolse la vita. Giuseppe Soldano ad esempio ha scelto lo skateboard di cui era un quattordicenne fanatico e che aveva con sé anche mentre andava a Merano per un corso di canoa. «Vado a prendere un panino, resta qui con le valigie», gli disse papà. Li ritrovò entrambi, figlio e skateboard, uno accanto all´altro, pochi istanti dopo, scavando con le mani sotto le macerie. Per Giuseppe il 3 agosto non è mai esistito: si svegliò il 4 in ospedale, con due costole rotte. Oggi è un rocciatore professionista. È rimasto al di qua della nebbia grigia. Eliseo Pucher, il cuoco friulano che tornava ai fornelli di un ristorante a Salsomaggiore,

La Repubblica 01.08.10

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