La strage infinita fra terroristi neri P2 e depistaggi. I più giovani non sanno e non possono neanche immaginare che trent’anni fa Bologna – la bella, gaudente Bologna – visse un giorno come di guerra, riprecipitò ai tempi lontani dei bombardamenti.
Non c’erano neppure abbastanza ambulanze per far fronte all’emergenza e gli autobus di linea sfrecciavano per le vie a tutta velocità diretti agli ospedali, con un lenzuolo bianco fuori da un finestrino per segnalare l’allarme, carichi di cadaveri e di corpi che ancora respiravano: ma straziati, carbonizzati. La gente che vedeva si chiedeva quale inferno si fosse spalancato, perché non c’erano ancora i cellulari, e le notizie circolavano lente.
Il 2 agosto 1980 era un sabato. La stazione era presa d’assalto da turisti che andavano e che venivano, perché Bologna è il crocevia d’Italia, da qui si passa per l’Adriatico e per il Sud, per la Toscana e per il Brennero. Coppie di sposi e di fidanzati, nonni, giovani con zaini stracolmi, tedeschi, bambini in sandali con il sacchetto dei giochi da spiaggia, impazienti e ignari che l’orologio del destino aveva già così presto fissato la loro sorte. Nella sala d’attesa della seconda classe esplode una borsa con duecento chili di esplosivo. I morti sono 85, i feriti 208, molti orrendamente mutilati nel corpo, tutti mutilati per sempre nell’anima. Il presidente Pertini arriva e riesce a dire solo: «Non ho parole».
Per quel massacro la giustizia italiana ha condannato all’ergastolo con sentenze definitive i neofascisti Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro; e a trent’anni Luigi Ciavardini. Costoro come esecutori materiali. Ma come depistatori, inquinatori delle indagini, sono stati condannati Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Erano tutti, questi ultimi quattro, aderenti alla loggia massonica P2; gli ultimi tre dirigenti dei servizi segreti dello Stato. Questo dovrebbero ricordarlo bene tutti coloro che ancora oggi banalizzano la P2 come una sorta di pittoresca lobby di incappucciati. In quasi tutti i processi per le stragi italiane uno dei pochi punti certi sono i continui depistaggi degli uomini della P2: vorrà dire qualcosa.
Quella mattina Marco Bolognesi aveva sei anni ed era andato alla stazione con la nonna paterna e i nonni materni. Per lui era un giorno felice: la mamma, insieme con il suo papà, stava tornando da Basilea, dove era stata operata con successo; finalmente sarebbe guarita. I suoi genitori lo ritrovarono qualche ora dopo, grazie a una segnalazione di una radio privata, all’Ospedale Maggiore: era tutto nero, non vedeva e non parlava, lo riconobbero per una voglia sulla pelle. Oggi Marco vive a Londra e fa il fotografo. Ha subìto quattordici interventi chirurgici: i medici, e forse qualcuno dall’Alto, hanno fatto il miracolo e gli hanno salvato un occhio.
Ho incontrato suo padre, Paolo Bolognesi. E’ il presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna. La sede è in via Polese, una delle tante stradine con i portici. Due o tre stanze semplici, quasi povere: l’orologio sul muro, come quello della stazione, è fermo sull’ora del demonio: le 10,25.
Gli chiedo che cosa pensi di uno strano paradosso: in Italia ci si è lamentati (e a ragione) perché quasi tutte le stragi sono rimaste impunite; ma quando per almeno una, quella di Bologna, gli esecutori materiali sono stati condannati, ci si è lamentati lo stesso. C’è un ampio fronte trasversale che solleva dubbi: sostiene che Fioravanti e la Mambro siano vittime sacrificali scelte per placare l’opinione pubblica. Risponde: «Chi sostiene questa ipotesi non conosce gli atti del processo. La pista palestinese, che ancora oggi viene avanzata come alternativa a quella neofascista, è stata il primo tentativo di depistaggio ordito dai servizi segreti». Cossiga dice che fu un incidente, lo scoppio fortuito di un esplosivo che i palestinesi stavano trasportando. «Si vergogni e si decida a dire la verità. Il fatto che Cossiga sia stato presidente della Repubblica è una macchia nera per l’Italia».
E’ convinto che, se ancora oggi si tenta di sponsorizzare la pista palestinese, è perché molti di quelli che sanno sono ancora ai posti di potere: «La P2 è tuttora attuale, parecchi dei suoi progetti politici si sono realizzati. Poi ricordo l’intervista che Fioravanti e la Mambro rilasciarono al Corriere della Sera dopo la sentenza d’appello. Si intitolava “Noi all’ergastolo, loro al governo”, ed era diretta agli ex missini. Secondo me era un messaggio mafioso, voleva dire: adesso ci dovete tirare fuori». Ma c’è anche tanta sinistra che difende quei due: «Credo che lo facciano un po’ per ignoranza degli atti, e un po’ perché il vero scopo è quello di creare i presupposti per salvare tutti i terroristi, anche i loro compagni che sbagliavano. Era stato il primo governo Prodi a proporre un’amnistia generalizzata per gli anni di piombo, no?». Anche la sinistra, dice, «mi ha molto deluso».
Ho ricostruito quel giorno con Giorgio Guazzaloca, primo sindaco non comunista della storia di Bologna. E’ stato accusato di non aver mai detto, alle celebrazioni del 2 agosto, che la strage era fascista: «Ma mi era stato chiesto da An di rimuovere la lapide che parla di violenza fascista, e io ho risposto che finché sarei stato sindaco quella lapide sarebbe rimasta lì». Ricorda: «Allora avevo ancora la macelleria, che era vicina alla stazione. Non sentii il boato. Entrò un signore urlando: è scoppiata la caldaia, forse una bomba. Nella tragedia la città seppe anche dare il meglio di sé: ci fu molta solidarietà, tutti si diedero da fare. Poi su Bologna scese una cappa. La città non era già più quella aperta, gioviale e gioiosa degli anni Sessanta. Ma la strage del 2 agosto fu una svolta traumatica: da allora Bologna è diventata più chiusa, più preoccupata. Credo che non si sia più ripresa».
Lo pensa anche Pupi Avati, che di quel giorno ha un ricordo indelebile. E’ una scena che sembra tratta da un suo film: «Stavo arrivando a Codigoro, nel Ferrarese, dove in una villa dovevamo iniziare le riprese di “Aiutami a sognare”, un musical con Anthony Franciosa e Mariangela Melato. C’era con noi il grande coreografo americano Hermes Pan, che aveva fatto i film con Fred Astaire e Ginger Rogers. Eravamo felici, c’era un clima di festa. Vedemmo che sul cancello della villa c’era ad aspettarci gente che, invece di accoglierci festanti, ci faceva gesti disperati. Pensai che fosse successo qualcosa a uno dei nostri attori. Mariangela entrò a chiedere e uscì piangendo. Passammo tutta la giornata a sentire la radio: tutti in costume e con le scarpe per ballare il tip e tap, una scena surreale, con un retrogusto terribile». Adesso Avati sta girando per la Rai una fiction intitolata «Un matrimonio» e, spiega, «c’è una scena in cui una donna, che poi è mia madre, cammina in via dell’Indipendenza e sente lo scoppio. Ho provato a ricostruire che cosa accadde in quel momento in città».
Anche l’onorevole Enzo Raisi, uno dei fedelissimi di Gianfranco Fini, quel giorno stava camminando in via dell’Indipendenza: «Era il mio primo giorno di servizio militare e stavo andando a prendere il treno per Torino. Mi salvai per pochi minuti. Ricordo che quando arrivai a casa c’era mia madre in lacrime: allora non c’erano i telefonini e pensava che fossi morto». Gli chiedo come visse in città da quel momento in poi, lui che era militante del Msi: «Il clima era bruttissimo, per anni siamo stati dei non-cittadini. In consiglio comunale i colleghi si rifiutavano di pronunciare il mio nome». E’ uno di quelli che non credono alla colpevolezza di Fioravanti e la Mambro: «Hanno fatto tante porcherie ma non hanno mai usato l’esplosivo e hanno sempre rivendicato tutto. E poi non credo che tre ragazzi di vent’anni abbiano potuto organizzare una cosa del genere». Viene in mente, comunque, un’altra confidenza di Paolo Bolognesi: «Mio figlio Marco è venuto a una sola udienza del processo. Ha visto Fioravanti e la Mambro che amoreggiavano nella gabbia degli imputati, fregandosene dei familiari delle vittime presenti in aula. Se n’è andato disgustato».
Anche per Bologna dopo trent’anni non c’è ancora pace. È molto forte il sospetto che la politica non abbia detto tutto. Ed è anche per questo che lunedì prossimo, in piazza Medaglie d’oro, i politici non saliranno sul palco. Ci sono saliti, ininterrottamente, dal 1993, e sono sempre stati fischiati.
La Stampa 30.07.10