attualità, lavoro

"I rischi del Lingotto", di Luciano Gallino

Da qualche tempo le mosse di Fiat Auto stanno diventando frenetiche. A fine aprile è arrivato il piano per trasferire a Pomigliano una quota della produzione della Panda che ora si fa in Polonia. Una settimana fa, l’annuncio che un modello di notevole peso industriale e commerciale sarebbe stato costruito in Serbia e non a Mirafiori. Poco dopo si è saputo che è già stata costituita una nuova società per gestire lo stabilimento campano, nonché per assumere con un nuovo contratto i lavoratori che accetteranno in toto di lavorare secondo i drastici standard indicati nel piano di aprile. Infine ieri l’Ad di Fiat ha avanzato come affatto realistica l’ipotesi di uscire dal contratto nazionale dei metalmeccanici, ed ha ribadito che ciò che vuole sono comportamenti dei lavoratori che non mettano mai, in nessun modo, a rischio la produzione e l’azienda

In altre parole, niente scioperi, niente vertenze sindacali, assenteismo meglio se vicino a zero, massima disciplina in fabbrica. A queste condizioni Fiat auto potrebbe anche restare in Italia.
La sequenza di queste mosse rientra chiaramente in una precisa strategia: portare per quanto possibile nel nostro Paese le condizioni di lavoro dei paesi emergenti, e in prospettiva i salari che in quelli prevalgano, perché ciò appare indispensabile allo scopo di reggere alla competizione internazionale. Se questa come sembra è la strategia Fiat, bisogna chiedersi dove essa potrebbe portare il Paese, ma anche la Fiat, e se la strategia stessa non avesse o non abbia ancora delle alternative.
Nel nostro Paese la strategia Fiat potrebbe in realtà non diminuire, grazie agli investimenti promessi, bensì aumentare il rischio di un marcato inasprimento e diffusione del conflitto sociale. Non può esservi dubbio, quali che siano le previsioni in contrario di questo o quel ministro o sindacalista, che migliaia di aziende le quali hanno sussidiarie all´estero chiederanno quasi subito, ove la strategia del Lingotto si affermasse, di adottarle a loro volta. è vero che c´è la crisi, che ha indebolito allo stesso tempo i sindacati e i singoli lavoratori; per cui molti di questi, dinanzi allo spettro della disoccupazione, accettano qualsiasi condizione pur di mantenere od ottenere un lavoro.
Tuttavia non è affatto detto che in tutte le categorie, in tutte le zone industriali, in tutte le fabbriche e in tutti gli uffici, la grande maggioranza dei lavoratori accetti senza fiatare i dettami dell´organizzazione del lavoro “di classe mondiale”. Ivi compreso il divieto di far sciopero, di manifestare, di aprire vertenze e perché no di ammalarsi. È questo uno scenario che l´amministratore delegato Sergio Marchionne parrebbe aver notevolmente sottovalutato, nella sua foga di giocatore che punta soprattutto a vincere la partita, quali che siano le conseguenze per gli spettatori. Dovrebbe essere il governo a ricordarglielo con una certa fermezza; ma dove stiano il governo, i ministri competenti, i politici che non si limitino a dire di supporre che tutto finirà bene, nessuno lo sa.
Avrebbe potuto adottare altre strategie la Fiat, dinanzi a quella che senza perifrasi va definita come la crisi mondiale dell´autoindustria? La risposta è sì, alla quale è doveroso aggiungere che forse è troppo tardi. In primo luogo, anziché battersi per portare da noi le aspre condizioni di lavoro, i bassi salari, l´assenza di diritti dei paesi emergenti, Fiat avrebbe potuto battersi per addivenire ad accordi internazionali intesi a portare gradualmente in questi ultimi condizioni di lavoro, salari e diritti vigenti nei nostri paesi. Non è roba da fantapolitica. In molti settori, dall´abbigliamento all´industria mineraria, accordi del genere sono stati sottoscritti, e miglioramenti non trascurabili conseguiti per i lavoratori di entrambe le sponde. Naturalmente, in una simile operazione strategica Fiat avrebbe dovuto di nuovo avere dietro o accanto un governo capace di muoversi su questa complessa scacchiera.
Anche in tema di strategie industriali la Fiat avrebbe potuto imboccare strade diverse. L´autoindustria mondiale soffre di tre gravi problemi: un eccesso enorme di capacità produttiva, un serio ritardo tecnologico, e una sostanziale incapacità di affrontare lo snodo cruciale della mobilità sostenibile (ad onta di quel che dice il sito dell´Associazione europea costruttori d´auto). In una simile situazione l´autoindustria avrebbe dovuto scegliere la strada schumpeteriana della concorrenza cooperativa, in luogo della concorrenza distruttiva. La prima prevede lo sviluppo di oligopoli che sappiano mettere in comune piani di produzione e tecnologie, oltre a dividersi saggiamente aree di mercato. La seconda prevede la guerra di tutti contro tutti, nella quale mors tua vita mea.
Anche in questo caso la Fiat non poteva sviluppare da sola forme di cooperazione internazionale, ma con il suo peso industriale e il suo prestigio poteva almeno provarci. Per contro ha imboccato con eccezionale tenacia e durezza la strada della guerra a oltranza dei costruttori. Essere costretti a sperare, come capita ora con le sue ultime mosse, che Fiat nei prossimi anni vinca almeno qualche battaglia, se non la guerra, non aiuta a formarci una visione serena né di quel che resta o potrebbe restare dell´industria italiana, né delle virtù competitive di cui parrebbe doversi universalmente dotare la società in cui viviamo. Quella che si diceva fosse fondata sul lavoro.

LA Repubblica 29.07.10

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“I 20 miliardi devono restare qui”, di Luca Fornovo

Su una cosa i sindacati sono tutti d’accordo: i 20 miliardi che la Fiat vuole investire in Italia sono «un fatto essenziale», «d’importanza straordinaria per l’industria italiana» e bisogna evitare che vengano ridimensionati. Ma su come difendere lavoratori e contratti, rendendo efficienti gli stabilimenti, le strade si dividono a volte solo per puntualizzazioni sfumate, come è il caso di Cisl e Uil, altre per posizioni più marcate e distinte, come per Cgil e Fiom.
Lo dimostra anche il fatto che ieri a mezzogiorno dopo il tavolo in Regione, a Torino, convocato dal governo, sempre nel palazzo di Piazza Castello i leader di Cisl, Uil, Cgil e Ugl hanno incontrato i giornalisti, tenendo quattro conferenze stampa separate. Ciascun sindacato ha voluto chiarire al meglio la sua posizione.
Comincia morbido Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, che coglie l’invito di Sergio Marchionne, ad di Fiat, a dire sì o no al progetto di Fabbrica Italia, per rilanciare l’auto. «Noi diciamo a Marchionne che per la Cisl la risposta è sì. Senza se e senza ma. E questo vale anche per l’accordo su Pomigliano» dice Bonanni che poi puntualizza «ma vogliamo che Marchionne faccia chiarezza sul fatto che le modalità dell’investimento rimarranno nel perimetro delle regole del nuovo sistema contrattuale che abbiamo costruito». Bonanni chiede anche a Marchionne che si faccia chiarezza «sul numero di auto che intende produrre e i modelli che si costruiranno nei vari siti».
Il numero uno della Uil, Luigi Angeletti, chiede accordi calibrati a seconda degli impianti in Italia, che tengano conto di investimenti e vetture differenti da produrre. «Gli stabilimenti – dice Angeletti – non sono tutti uguali quindi non si può fare una camicia a taglia unica bisogna fare accordi separati rispetto alla realtà che si ha di fronte». Quanto poi all’ipotesi che Fiat disdica il contratto nazionale dei metalmeccanici, Angeletti è d’accordo con Bonanni: «Abbiamo modernizzato le regole poco tempo fa, dunque non ci sono ragioni per annullarle, esistono condizioni per realizzare accordi industriali dentro quella cornice». Inoltre, conclude il leader della Uil, «gli accordi si fanno in due ed anche per disdirli bisogna essere in due».
La voce più critica su Fiat e governo è quella del segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che è accompagnato dalla numero due, Susanna Camusso e da Maurizio Landini, leader della Fiom. «Ho sentito molto ottimismo, ma in verità non ci sono fatti nuovi – dice Epifani – è confermata quell’incertezza sugli impegni produttivi assunti a Palazzo Chigi, rafforzato dall’annuncio dello spostamento in Serbia della vettura che doveva essere fatta a Mirafiori: le rassicurazioni sul futuro di Mirafiori non sono di per sè né impegni né certezze». Su Pomigliano, Epifani chiede che si possa riaprire il confronto. Poi la stoccata a Palazzo Chigi. «Abbiamo chiesto al governo – continua Epifani – di non lavarsene le mani. Non può fare da spettatore».
E Landini torna sulle regole: «Siamo pronti a trattare con Fiat, ma non su un nuovo contratto. E il Lingotto torni a riaprire la trattativa anche sul premio di risultato». Un po’ di delusione affiora dal leader dell’Ugl, Giovanni Centrella: «Purtroppo non siamo in possesso di precise garanzie da parte dell’azienda sia sullo stabilimento Fiat di Mirafiori sia su tutti gli altri, a partire da Pomigliano, progetto che, come Fabbrica Italia, stenta ancora a partire». Mentre Roberto Di Maulo, numero uno della Fismic, che giudica «positivo l’incontro di Torino perché sono stati confermati gli investimenti», invita Marchionne «a ottenere il consenso dei lavoratori, basandosi di più sulla partecipazione».

La Stampa 29.07.10