L’esercizio è semplice, ma l’effetto è impressionante. Basta accostare due notizie, registrate da tutti i giornali negli ultimi giorni. La prima, in ordine di tempo, si riferisce al rapporto Svimez 2010 sull’economia del nostro Mezzogiorno, dove si segnala addirittura il rischio di «una estinzione» dell’industria nel Sud. La seconda, di ieri, riporta le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, nelle quali si annunciano, da Detroit, il passo decisivo e obbligato dell’azienda sulla via dell’internazionalizzazione e la scelta di spostare in Serbia la costruzione della nuova monovolume, in un primo momento prevista a Mirafiori.
Il drammatico allarme del più importante istituto di analisi economico-sociale sulla condizione delle nostre regioni meridionali e la cruda chiarezza con cui Marchionne esprime scetticismo sulle garanzie che negli stabilimenti italiani si possano ottenere per attuare progetti di investimento così impegnativi hanno suscitato nella classe politica e in quella sindacale del nostro Paese reazioni sconcertanti. Da una parte, deprecazioni generiche all’insegna di un meridionalismo sempre più vecchio e senza idee.
Dall’altra, minacce, barricadiere nei toni e vane nella sostanza, contro le regole della competitività e dei mercati internazionali e proposte di liturgici tavoli di discussione.
La debolezza di queste risposte al significato complessivo delle due notizie è sconfortante, per almeno due ragioni. La sproporzione rispetto al pericolo di un forte declino dell’industrializzazione italiana e, quindi, di una sostanziale emarginazione di quella che figura ancora come settima potenza dell’economia mondiale dal futuro vertice dei Paesi più sviluppati del ventunesimo secolo. La sorpresa per due annunci che non sono affatto «due fulmini a ciel sereno», ma sono gli esiti, purtroppo largamenti previsti, di fenomeni che, in Italia, si manifestano non da anni, ma da decenni.
E’ da decenni, infatti, che i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi non hanno avvertito la gravità della crisi e che, perciò, non hanno lanciato un vero piano straordinario di politica industriale. L’unico progetto con il quale, concentrando tutte le risorse del Paese, si possa sperare di restare a far parte dell’élite economica del mondo. L’unico modo, al di là di astratti, confusi e velleitari piani di riconversione delle vocazioni fondamentali dell’Italia, con il quale si possa assicurare il futuro ai nostri giovani.
Nel recente e non solo recente passato i governi hanno diviso la questione industriale in Italia, separando, di fatto, l’attenzione e le terapie tra la condizione del Nord e quella del Sud. Nel Settentrione, si è pensato di compensare le difficoltà delle grandi aziende per competere sui mercati internazionali con il modello della piccola manifattura che si è sviluppato nel Nord-Est. Un sistema fondato su presupposti economici, sociali, finanziari che non poteva reggere davanti alla crisi dei mercati esteri e alla concorrenza delle condizioni di lavoro nei Paesi meno evoluti.
Per il Mezzogiorno si è oscillato, invece, tra due convinzioni, in realtà senza applicare nessuna delle due con la minima coerenza. Alcuni hanno teorizzato che la migliore scelta fosse quella di non fare nulla. I risparmi ottenuti, rispetto alle onerose politiche di incentivi e di assistenza, avrebbero potuto consentire al Nord una più rapida crescita e, quindi, trainare anche il Sud verso un progresso economico più sano e più indipendente. Altri hanno invocato, invece, una specie di ritorno al passato, alla «gloriosa» epoca della Cassa del Mezzogiorno e dell’Iri, al massiccio intervento dello Stato. I risultati dell’intreccio casuale di queste due linee di politica economica sono evidenti: mentre in altre zone depresse d’Europa, come l’Irlanda, il Sud della Spagna, l’Est della Germania, le distanze con le regioni più sviluppate si sono accorciate o addirittura annullate, il nostro Mezzogiorno è nella condizione tragica denunciata, appunto, dall’ultimo rapporto Svimez. Un piano straordinario di politica industriale dovrebbe puntare sulle tre emergenze che impediscono all’Italia di essere un Paese attrattivo per gli investitori stranieri: una giustizia civile meno insopportabilmente lunga, una burocrazia meno asfissiante, una legislazione del lavoro più moderna. Il ministro Tremonti, a parte la balzana idea di modificare l’articolo 41 della Costituzione, ha avanzato, per la verità, alcune proposte interessanti in merito, individuando il vero motivo per cui sia le famose «lenzuolate» di Bersani, sia il tanto propagandato «piano casa» di Berlusconi si siano risolti in un sostanziale fallimento: «gli interessi di settori riescono a bloccare tutto», ha ammesso.
Ecco perché solo una eccezionale mobilitazione bipartisan, provocata dalla consapevolezza del rischio che corre l’Italia in questo momento, potrebbe sconfiggere le resistenze corporative. Non c’è bisogno di calcare i toni dell’allarme sul futuro dell’industria nel nostro Paese, perché la situazione è persino troppo evidente. Né di eccedere in pessimismo, perché il nostro futuro non è scontato. E neanche di esibire qualche gesto simbolico. Ma se, a quasi tre mesi di distanza dalle dimissioni di Scajola, si trovasse anche un ministro dell’Industria non sarebbe male.
La Stampa 23.07.10