L’Italia sta affrontando in maniera clamorosamente inadeguata la più profonda trasformazione tecnologica e culturale dai tempi di Gutenberg, ovvero, la rivoluzione digitale. Su più livelli. I dati sono eloquenti (Istat e Eurostat, 2009): di venticinque Paesi dell’Unione Europea misurati dalle statistiche, l’Italia è ventiduesima per percentuale di famiglie con accesso a Internet da casa.
I primi della classe, ovvero il Nord Europa, hanno percentuali quasi doppie rispetto alle nostre (il 90% delle famiglie ha accesso Internet), ma anche Francia, Malta e Slovenia ci staccano nettamente. Peggio di noi solo Grecia, Portogallo, Romania e Bulgaria. Guardando al commercio, appena l’8% di italiani compra su Internet, contro il 45% di tedeschi e il 18% di polacchi. Uno stupefacente 41% di piemontesi non ha mai usato un computer – la stessa percentuale del distretto di Bucarest. E così via. Ma non sono solo le famiglie e i singoli ad essere indietro. L’Italia è anche ventesima (su 25) per spese in hardware, software e servizi relativamente al prodotto interno lordo; ciò significa che anche le imprese italiane adottano in media poche tecnologie digitali rispetto alle concorrenti europee, dato confermato anche da diversi altri indicatori relativi all’uso dei tali tecnologie nelle imprese. Infine la Pubblica Amministrazione: in questo ambito l’Italia si colloca sotto la media europea, anche se non di molto, ma con livelli medi di usabilità dei servizi e di monitoraggio della soddisfazione degli utenti molto bassi. Nelle scuole, poi, il numero medio di computer connessi a Internet per alunno è, secondo gli ultimi dati disponibili (2006), tra i più bassi dell’Unione Europea.
A questi dati, duri nella loro oggettività, si affianca qualcosa di più qualitativo, allo stesso tempo sia causa sia effetto dello scenario sopra tratteggiato, ovvero, uno scetticismo, se non una diffidenza, nei confronti di Internet molto più diffuso che in altri Paesi avanzati. Uno scetticismo generico e non ragionato, spesso condiviso da esponenti della classe dirigente, che produce un’evidenziazione sistematica degli aspetti negativi di Internet e un passare altrettanto sistematicamente sotto silenzio gli aspetti positivi, sia quelli già davanti ai nostri occhi sia quelli potenziali – i più sacrificati quando non si vogliano alzare gli occhi da terra.
Senza entrare in giudizi di merito, però, la rivoluzione Internet è tra noi – è un dato di fatto. E’ un cambiamento profondo che sta toccando – o si accinge a toccare – praticamente tutti gli aspetti della nostra vita, dal divertimento alla formazione, dalla comunicazione alla politica, dai diritti fondamentali delle persone alle prospettive economiche.
Possiamo snobisticamente ignorare questo dato di realtà, consolandoci – si fa per dire – con la straordinaria diffusione di telefoni cellulari o televisori nel nostro Paese, ma in tal caso è allora doveroso spiegare ai cittadini che così facendo la classe dirigente sta ipotecando un altro pezzo del nostro futuro. Saranno, infatti, altri i Paesi a godere appieno del vantaggio competitivo, economico e sociale, derivante da una rapida e ragionata adozione delle tecnologie digitali.
Oppure possiamo abbracciare il cambiamento e cercare di dargli la forma che più si adatta alle priorità e alle attitudini dell’Italia. In tal senso, si possono identificare tre principali pilastri per sostenere un potenziale risorgimento digitale italiano. Il primo pilastro è alzare il livello di scolarizzazione del Paese. E’ inutile, infatti, sperare di portare percentuali nord-europee di italiani su Internet in presenza di sacche di neo-analfabetismo che, come ricorda Tullio De Mauro, riguardano oltre un terzo della popolazione.
Il secondo pilastro è abbattere le barriere culturali ed economiche che privano di computer e di accesso a Internet una larga parte della popolazione, in particolare – come si evince dai dati Istat 2009 – le famiglie di lavoratori non qualificati e chi abita fuori dai centri urbani. Occorre, da una parte, far capire, con una sorta di «150 ore» del XXI secolo, quale risorsa possa rappresentare – per sé, per la propria attività e per i propri figli – un computer connesso a Internet in casa propria e, dall’altra, intervenire con incentivi economici efficaci per sostenere l’acquisto del computer e dell’accesso alla rete.
Il terzo pilastro è il superamento del cosiddetto «digital divide infrastrutturale», ovvero, gli ostacoli che trova chi vorrebbe connettersi alla rete, ma non può perché nel luogo in cui la persona (o l’azienda) si trova la rete semplicemente non c’è. Larga parte del territorio italiano, infatti, particolarmente quello al di fuori dei principali centri urbani, è connesso alla rete a banda larga poco o per niente. E’, quindi, urgente un serio programma di investimenti per portare la rete a tutti, possibilmente in fibra e altrimenti usando le frequenze lasciate libere dalla televisione analogica, potenziando nel contempo la diffusione dal basso delle reti Wi-Fi con l’abrogazione del cosiddetto decreto Pisanu.
Le tre azioni si dovrebbero mettere in campo simultaneamente. I risultati si vedrebbero nel giro di pochi anni, e permetterebbero all’Italia di uscire da un’arretratezza che pregiudica il nostro futuro, entrando nel gruppo di quei Paesi che l’onda del cambiamento la stanno imparando a cavalcare e a guidare.
*docente del Politecnico di Torino
La Stampa 19.07.10