«Ghe pensi mì»: al rientro dal suo viaggio a Panama, Berlusconi si è espresso in dialetto milanese per raccogliere le energie necessarie a fronteggiare una crisi di appannamento della sua lecmmagini propri della mitologia leghista più tradizionale, si è detto convinto che il presidente del Consiglio «se la caverà» perché una di queste mattine, novello Alberto da Giussano, «si alzerà , scoprirà che la spada è ancora affilata e la userà per fare la guerra». Staremo a vedere, ma intanto lo scambio di amorosi sensi fra i due grandi lombardi della politica italiana – l’imprenditore brianzolo che si è fatto da sé e l’uomo del popolo con in testa un’idea meravigliosa – rivela una nuda e cruda verità: la Lega, ogni giorno che passa, ha sempre di più in tasca la golden share del governo. Eppure, al di là delle battute in dialetto e delle strizzatine d’occhio gergali, la situazione del governo è più difficile di quello che sembra.
In primo luogo, perché è del tutto chiaro che il giorno in cui Berlusconi deciderà di usare la spada, lo farà per tagliare il nodo gordiano del suo rapporto con Fini, sempre più sfilacciato. Nel giro di due mesi sono caduti come birilli Scajola, Brancher, Cosentino e vacilla Verdini per la semplice ragione che Berlusconi ha temuto di non avere la sufficiente maggioranza per superare lo scoglio di una mozione di sfiducia dell’opposizione contro di loro.
Anche per il partito di Bossi le difficoltà stanno proprio in questo passaggio di fase che certo disorienta il suo elettorato poco incline a tollerare freni all’azione di governo causati da problemi giudiziari, malaffare diffuso e uno stadio di rissa permanente dentro il Pdl.
Ma c’è poco da fare: il blocco di potere del centro-destra si è retto per anni grazie alle capacità di sintesi di Berlusconi, aiutato dalle doti di mediazione di Letta, che gli hanno consentito di proporsi come fulcro necessario di un’alleanza difficile tra i ceti produttivi del nord leghista e il tradizionale elettorato amministrativo della destra meridionale, riuscendo a tenere insieme Tremonti e Fini, i fermenti separatisti e l’idea di nazione. Da ormai un anno, però, ha iniziato a scricchiolare la gamba destra del tavolo, quella finiana, che dunque traballa pericolosamente alla ricerca di nuovi assetti. Sotto questo profilo è stato da manuale il breve giro di valzer dell’offerta di Berlusconi a Casini di rientrare nella partita di governo con il ruolo di zeppa o cuneo che dir si voglia. Il diniego del leader dell’Udc, che ha fatto la mossa di proporre un governo di larghe intese sempre diretto da Berlusconi e dunque irricevibile dal Pd, ha di poco anticipato il perentorio stop della Lega a simili giochini di mezza estate molto, forse troppo, “romani”.
Sullo sfondo, questa sì a pesare come una spada di Damocle sulla tenuta del governo, c’è la questione del federalismo e la difficoltà di attuarlo in un quadro di crisi economica duraturo e senza una ponderazione effettiva dei costi. Da questo punto di vista Bossi ha incassato un chiaro successo dal momento che i governatori non hanno restituito le loro deleghe come avevano minacciato, davanti a una finanziaria che impone tagli di bilancio draconiani, in particolare alla Lombardia di Formigoni, leader temuto dal Carroccio e sempre più inquieto. Si è trattata di un’indubbia vittoria dei giovani governatori leghisti Cota e Zaia che, con consumata esperienza democristiana, hanno minimizzato e incassato.
D’altronde, sempre in questi giorni, la Lega sta mostrando il suo volto più provinciale e gretto con l’annosa vicenda delle quote latte e il rifiuto di pagare all’Europa le multe dovute per quanti non hanno rispettato il regime produttivo pattuito. La conseguenza è semplice: quando scatterà l’inevitabile procedura di infrazione europea tutti i cittadini italiani saranno costretti a pagare di tasca propria l’illegalità degli allevatori del lombardo-veneto. Certo, con le multe e il rispetto della regole la Lega deve avere qualche problemino: ad esempio, il presidente del partito Angelo Alessandri si rifiuta di pagare le contravvenzioni accumulate con la sua auto blu; ben settanta multe fra il 2008 e il 2009 per una spesa di quasi tremila euro attaccandosi alla norma per cui quelle auto non sono soggette ai limiti di velocità uguali per tutti durante l’esercizio delle proprie funzioni istituzionali o per ragioni di sicurezza. A quanto pare, nel suo caso, anche per normali divieti di sosta.
L’atteggiamento della Lega è tollerato dal governo perché Berlusconi sa bene che la tenuta della sua maggioranza dipenderà dal modo in cui Tremonti sarà in grado di garantire le risorse necessarie ad avviare la riforma federale. Forse non è un caso che la Lega sia attualmente il più vecchio partito italiano presente in Parlamento: sempre più il suo ruolo assomiglia a quello di Craxi ai tempi della prima Repubblica che si mostrò capace di sfruttare al massimo la sua “rendita di posizione” e “potere di interdizione”, pur rappresentando una forza elettorale media. Come è noto, egli si fregiò del soprannome di Ghino di Tacco, dal nome del brigante medievale che, dalla Rocca di Radicofani, assaliva i viandanti della via Francigena, l’unica arteria di comunicazione tra Firenze e Roma. Oggi lo scenario si ripete più al nord, si direbbe all’inedito grido di “Padania ladrona”.
Il Sole 24 Ore 18.07.10