Ave direttore, attraverso il Suo giornale intendo denunciare l’uso improprio che in questi giorni si sta facendo del mio nome. Mi ritrovo coinvolto in resoconti bizzarri, tirato in ballo da individui a me del tutto ignoti. «Amm’a vedé Cesare» (ma che lingua è, sannita?). «Credo che il dossier sia arrivato nelle stanze di Cesare, i tribuni ne hanno già dato notizia». (Chiacchieroni perditempo, prima o poi li caccio e metto al loro posto una vestale). «Marcello parla anche a nome di Cesare». Alt. E chi sarebbe questo Marcello che parla a mio nome? Il glorioso console che conquistò Siracusa o il noto bibliotecario che tiene i contatti con Palermo? Ce n’è uno che si spaccia per mio cugino: gli dedicherò il «De bello pallico», una raccolta di barzellette lapidarie (la mia preferita è «Veni vidi Ici», dedicata al federalismo fiscale). Un altro tira in ballo la storia del «vice Cesare» e qui non vorrei sembrarle petulante, ma visto che sull’argomento ho già preso un bel po’ di pugnalate, ribadisco che non esiste ancora un vice designato. L’ho spiegato a Bruto, a Marcantonio e anche ad Augusto, il quale mi dicono abbia avuto in dote il Tg1, ma non da me, ripeto, non da me. Ho il sospetto, direttore, che qualcuno a Roma stia usando impropriamente il mio nome per i suoi loschi affari. Appena torno dalla Gallia (lunedì sarò a Mediolanum con Aznavour) andrò in fondo a questa storia. Avrebbe per caso un dado da prestarmi? Firmato: Cesare (Caio Giulio)
La Stampa 17.07.10