L’assessore alla Cultura della Provincia di Milano ha appena enunciato il principio cardine della sua linea culturale: niente «schifosate». Noi lo guardiamo perplessi, lui ribadisce: «E’ finito il tempo delle deleghe in bianco; ora interverremo sui contenuti; quindi, niente schifosate!». Dopo lo sforzo di eloquenza, si aggiusta gli occhiali sul naso, poi, soddisfatto, tace. Noi ci guardiamo interdetti: cosa intenderà il neo-assessore con l’inaudita categoria estetica delle «schifosate»?
È una tarda mattinata del novembre 2009. Io e un mio amico siamo venuti a illustrare il progetto di una piccola e rinomata rassegna letteraria che organizziamo da anni in città con il sostegno dell’assessorato alla Cultura di Comune e Provincia. Abbiamo atteso a lungo che l’assessore ricevesse uomini con nodi alle cravatte grossi come palle da tennis, poi, una volta giunti al suo cospetto, dopo aver capito che l’assessore alla Cultura ignora, in particolare, l’attività culturale svolta dal suo ufficio negli anni passati e, più in generale, la vita culturale cittadina o nazionale, abbiamo udito il verbo delle «schifosate». Ora ce ne stiamo lì, silenti e riverenti, facendo immani e vani sforzi esegetici.
Lui deve finalmente aver letto lo smarrimento nei nostri occhi e chiarisce: «Sì… schifosate… roba del tipo che m’invitate Travaglio a parlar male di Berlusconi, oppure roba omosessuale… oppure, non so, avete presente quell’artista lì… come si chiamava?… aiutatemi… Cos’era, polacco? Insomma, quell’artista che quando hanno inaugurato quel museo di Napoli… sì, quel museo lì… come si chiamava il museo? Vabbè, insomma, quell’artista che ha messo un preservativo in testa a un crocifisso. Ma ve lo immaginate l’imbarazzo delle autorità?! Insomma, niente schifosate!».
Quella tarda mattina di novembre, io e il mio amico ce ne uscimmo mesti dall’ufficio di quello che per noi divenne, da allora, «l’assessore alle schifosate» (il suo nome proprio non conta). Ci chiedevamo dove ci avrebbe condotti una guida tanto illuminata (nel nostro caso, condusse a una rottura; mesi dopo rifiutammo un’offerta di patrocinio giunta a una settimana dall’inizio della manifestazione perché la ritenemmo tardiva nei tempi, triviale nei modi e sprezzante nell’entità: 1500 euro).
Ma al di là del caso personale, la cronaca di questi giorni risponde al nostro interrogativo di allora. Dopo aver già fatto calare su varie manifestazioni la mannaia del taglio per motivi moralistici, ideologici o di semplice incompetenza, ora l’assessore convoca in Provincia i direttori di vari teatri milanesi indicando gli spettacoli da sopprimere in base all’estetica delle «schifosate». All’Out Off si chiede di «sostituire» Orgia di Pasolini, a Renato Sarti di cancellare la Trilogia del benessere (tre atti unici portati in scena per la prima volta da Strehler nel ’91) e via dicendo. Tutte «schifosate», evidentemente. E chissà quante altre dovranno ancora essere ripulite da igienici interventi censori…
A questo punto, però, si deve deporre ogni sarcasmo e sgombrare il campo da ogni equivoco. Qui non è questione di destra o sinistra (l’assessore alle «schifosate» è di destra). Alla favola della perdurante egemonia culturale della sinistra non crede, oramai, più nessuno visto che la destra italiana detiene da decenni quasi tutte le leve del potere simbolico. Milano e la Lombardia, poi, sono governate da molto tempo, con un potere quasi assoluto, da giunte di centrodestra. Abbiamo avuto già vent’anni fa un sindaco leghista eppure si dotò di un assessore alla Cultura di alto profilo. Esiste del resto, lo sappiamo tutti, una feconda e potente cultura di destra. No, il punto non è questo. Il punto è che futuro vogliamo per Milano e per il Paese. Una Milano che guardi all’Esposizione Universale del 2015 (ammesso che ci guardi) non può tollerare un personale politico così. Qui è questione non di contrapposte politiche culturali ma di livello di civiltà, è questione di competenza, di decenza e di potenza. Ciò che inquieta della grottesca estetica delle «schifosate» è più la sua natura reattiva che non quella reazionaria, più il suo essere arretrata che non il suo essere retrograda. Ci sono forme molto più evolute, ed efficaci, anche di propaganda politica o di offerta culturale ideologica. Questi sono censori che fanno il vuoto, non il pieno. La mano lasciata libera dalla mannaia non sanno a cosa destinarla.
È questa un’emergenza che dovrebbe preoccupare tutti, non solo quelli che vanno a teatro. Nelle nostre società non c’è sviluppo senza cultura perché la crescita dipende più dalla produzione di beni immateriali che di beni materiali: informazioni, servizi, simboli, conoscenza. Oggigiorno si può essere ricchi e ignoranti per una generazione, ma non per due.
La Stampa 16.07.10
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