L’Italia che s’accinge a celebrare un secolo e mezzo di storia nazionale è diventata una palude, uno stagno d’acque limacciose nel quale siamo immersi fino al collo. Scorri le cronache che incalzano giorno dopo giorno, e t’accorgi che nessun ceto sociale, nessuna categoria professionale è fuori dalla melma. Ci trovi dentro il poliziotto e il giudice, l’imprenditore e il generale, il direttore della Asl così come il prefetto, il banchiere, il professore. E ovviamente il politico di turno, con le sue mani rapaci. Tutti affaccendati in faccende deplorevoli ma ben retribuite, e infatti il faccendiere ormai incarna il mestiere con la maggiore schiera di seguaci.
Tu vedi che l’Italia è questa, ma sai pure che non è soltanto questa. All’università imperversano piccoli baroni (fateci caso: in genere sono anche bassi di statura), ma i più insegnano, studiano, scrivono, non passano tutto il proprio tempo a imbastire trame e organigrammi.
Succede lo stesso negli ospedali, nei tribunali, negli studi professionali, nelle aziende. Succede tra le forze dell’ordine, al di là di qualche mela marcia. Proprio ieri 300 arresti hanno decapitato la ’ndrangheta dal Sud al Nord della penisola, dopo i colpi già andati a segno contro la mafia e la malavita organizzata. E allora perché mai il presidente del Consiglio, invece di menarne vanto, difende ora Brancher ora Verdini ora Cosentino, vittime a suo dire d’un furore giacobino? Ma soprattutto: perché noialtri giriamo gli occhi altrove? Da quando abbiamo perso ogni capacità reattiva? Per quale ragione non riusciamo a espellere il furbetto della stanza accanto, e anzi lo guardiamo con ammirazione? A che si deve questo sonno collettivo?
La risposta suonerà forse impietosa, ma è da qui che dobbiamo cominciare. Se gli onesti camminano per strada a mani alzate, ciò accade perché sono un popolo sconfitto. L’Italia del malaffare è anche l’Italia dei potenti, di chi ha vinto la partita. E alle nostre latitudini i potenti sono immarcescibili, hanno bevuto l’elisir di lunga vita. Al massimo accettano di scambiarsi le poltrone, come nel gioco dei quattro cantoni. Capita fra i membri delle authorities come nei consigli d’amministrazione, nelle regioni, nei gabinetti ministeriali. È quest’antica confidenza col Palazzo che li fa sentire onnipotenti, al di sopra della legalità costituita. Ed è al contempo quest’esempio che indebolisce la nostra tempra collettiva. Sai che puoi farti spazio nella vita soltanto per graziosa concessione del sovrano, e sai inoltre che il sovrano applica regole diverse da quelle stampate sulle Gazzette ufficiali.
Insomma la questione legale è figlia d’un paese bloccato, senza ricambio nelle sue classi dirigenti. E dunque senza premio per i meriti, né castigo per i demeriti. Un paese dove il tuo destino dipende dal certificato anagrafico che hai ricevuto in sorte, oppure dalla benevolenza dei potenti. Questa sciagurata condizione tradisce la promessa di riscatto per i deboli conservata nel principio d’eguaglianza sostanziale, il pilastro sul quale i nostri padri fondatori edificarono la Costituzione del 1947. E in secondo luogo tradisce l’ambizione su cui vent’anni fa sorse la seconda Repubblica.
Se il primo tempo delle nostre istituzioni restituì un’immagine pietrificata, con un partito al governo per 45 anni di fila, il secondo tempo avrebbe dovuto aprirci viceversa alla competizione, alla mobilità sociale, alla meritocrazia. Altrettante riforme mancate, progetti abbozzati e subito abortiti. Ma senza riforme non verremo mai fuori dalla nostra palude collettiva.
La Stampa 14.07.10