“La magistratura è un cancro da estirpare”, sostiene da mesi il presidente del Consiglio, nella furia iconoclasta che lo spinge ad abbattere i simboli e le istituzioni repubblicane. Finge di non vedere la doppia metastasi che gli sta crescendo attorno, e che sta lentamente ma inesorabilmente divorando il suo governo. C’è una metastasi giudiziaria, che ormai mina alle fondamenta il sistema di potere che lui stesso ha costruito negli anni.
L’iscrizione di Dell’Utri e Cosentino nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, è per ora soltanto un’ipotesi investigativa. Ma è più che sufficiente a completare un quadro agghiacciante del rapporto tra politica e malaffare nell’epoca berlusconiana.
Le inchieste che si moltiplicano, da Milano a Roma, da Firenze a Napoli, da Perugia a Palermo, scoperchiano un verminaio che travolge a vario titolo gli uomini più “strategici” e più vicini al premier. Guido Bertolaso, ras della Protezione Civile, signore delle Emergenze e vicerè dei Grandi Eventi, finito nel tritacarne dell’inchiesta sul G8, che nel triangolo Balducci-Anemone-Fusi ha svelato un micidiale meccanismo di corruzione sistemica e di arricchimento personale. Claudio Scajola, feudatario ex democristiano e plenipotenziario del Nord-Ovest, dimesso da ministro per aver lucrato (a suo dire inconsapevolmente) un appartamento dalla stessa banda al lavoro tra La Maddalena e L’Aquila. Aldo Brancher, storico tenutario dei rapporti con la Lega, dimesso da ministro dopo aver tentato di approfittare della nomina per sottrarsi al processo che lo vede imputato per la vicenda Antonveneta-Bnl. Denis Verdini, potentissimo coordinatore del Pdl, invischiato in diversi filoni d’inchiesta: prima gli appalti del G8, adesso anche le cene organizzate con i compagni di merende per spartire gli affari, condizionare i giudici della Consulta chiamati a decidere sul lodo Alfano, fabbricare falsi dossier ai danni degli avversari dentro il Popolo delle Libertà. Nicola Cosentino, vicerè azzurro della Campania e accusato di concorso esterno in associazione camorristica, ora coinvolto anche nell’inchiesta sul killeraggio morale ai danni del presidente della Regione. Marcello dell’Utri, sovrano di Publitalia e delle Due Sicile, padre fondatore di Forza Italia e garante degli equilibri con Cosa Nostra (secondo la Corte d’Appello, sicuramente fino al 1993), a sua volta finito nell’inchiesta sull’eolico (insieme al governatore della Sardegna Ugo Cappellacci) in quanto ospite di casa Verdini per le cene con i magistrati alla Antonio Martone o i faccendieri alla Flavio Carboni.
Ci sarà tempo per verificare la fondatezza delle accuse formulate nei confronti dell’inner circle berlusconiano. Ma una cosa è già chiara, fin da ora. Quella che sta venendo fuori dal complesso panorama indiziario è molto più che una banalissima “cricca”, che si riuniva per pagare qualche mazzetta e condividere qualche affaruccio di sotto-governo. Quello che si delinea è un vero e proprio “sistema di potere” a fini privatistici, che chiama in causa non qualche sparuta mela marcia, non qualche episodico mariuolo. Ma piuttosto, verrebbe da dire, “tutti gli uomini del presidente”. E proprio per questo, quello che si delinea è un vero e proprio “metodo di governo” della cosa pubblica, nel quale politica e affari si mescolano nella violazione sistematica della legge e del mercato. Una fabbrica che genera illecito, attraverso la distribuzione di tangenti e lo scambio di favori. E che conserva potere, attraverso il controllo delle candidature a livello nazionale e locale e il pilotaggio delle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Una fabbrica che produce fango, attraverso i dossier falsi (meglio se a sfondo sessuale) commissionati per distruggere avversari interni ed esterni, com’è capitato a suo tempo al direttore di “Avvenire” Dino Boffo, e come capita adesso al governatore della Campania Stefano Caldoro. E man mano che emergono nuovi, inquietanti spezzoni di queste inchieste, si capisce anche il perché Berlusconi abbia bisogno di un provvedimento come quello sulle intercettazioni, con il quale può anche cedere su alcuni punti che riguardano la procedibilità delle indagini, ma non su quelli che riguardano il diritto di cronaca. La legge-bavaglio serve esattamente a questo: non far conoscere agli italiani le malefatte di una “casta” che, come sostengono a ragione alcuni pm, somiglia sempre di più a un’associazione a delinquere.
Questa ragnatela di illegalità è sempre più diffusa, sempre più pervasiva. Non è incistata “nel” sistema. È “il” Sistema. E i suoi fili, con tutta evidenza, sono intrecciati in ciascuna delle varie indagini che le diverse procure stanno portando avanti. Il procuratore antimafia Pietro Grasso ha parlato di “favori tra reti criminali”. Qualcuno ha evocato una nuova “Loggia P3”, che agisce con pratiche non diverse, e altrettanto pericolose, della vecchia massoneria deviata di Licio Gelli. È una definizione convincente, al di là delle suggestioni giornalistiche. E comunque sufficiente a far pensare, a questo punto, che una “questione morale” esista davvero. E che interroghi direttamente il governo, e personalmente il presidente del Consiglio. Fino a quando può ignorare questa metastasi? Fino a quando può blindare e a difendere gli uomini che la incarnano? Fino a quando può illudersi che la cura sia l’ovvio passo indietro di un ministro impossibile come Brancher o quello di un modesto assessore regionale come Sica? Per questo la metastasi è ormai anche politica. Il Pdl è dilaniato da una faida violenta tra bande rivali. Il premier è accerchiato da ogni parte. Non solo Fini sulla giustizia e Tremonti sulla manovra. I Dell’Utri e i Cosentino, i Verdini e gli Scajola, gli si agitano intorno come spettri. Allegorie della sua ossessione giudiziaria, ma anche della sua concezione politica. In alto il Sovrano Assoluto, in basso il suo Popolo. In mezzo la sua Corte. Che ne mutua tutti i vizi, ne riproduce tutte le nefandezze. Così non può reggere. E non reggerà.
La Repubblica 13.07.10