Dall’Associazione 20 maggio una proposta per superare la giungla del precariato universitario
Quando si affronta il tema dell’accesso al lavoro nell’università è necessario considerare che la precarietà universitaria è un fenomeno complesso, che si è evoluto in maniera spontanea al di fuori di qualsiasi disegno organico di funzionamento del sistema accademico. Tramite il ricorso massiccio a forme contrattuali talvolta introdotte in maniera estemporanea nel calderone di una legge finanziaria, talvolta nate con finalità diverse da un rapporto di lavoro, si sono ampliati organici e garantite attività alle quali il lavoratore spesso non era formalmente adibito. Tutto ciò ha portato ad una giungla di contratti nella quale si mescolano forme adeguatamente tutelate e rapporti ai limiti dell’indecenza, privi dei più fondamentali diritti del lavoro. A titolo di esempio, consultando i dati delle collaborazioni esterne di alcuni dipartimenti dell’università La Sapienza si possono trovare contratti da 1950 euro totali in 3 mesi, da 3000 euro in 6 mesi, da 6000 euro in 9 mesi… Dietro questi numeri ci sono persone che non solo lavorano senza diritti e dietro compensi irrisori, ma (e le due cose non sono indipendenti) sono del tutto prive tutele sociali e di rappresentanze sindacali. Poiché infatti non esiste un contratto nazionale di lavoro dei docenti universitari, i sindacati non hanno alcuna rappresentanza formale degli interessi di professori e ricercatori e quindi ancor meno possono farsi carico del problema dei lavoratori precari.
Per mettere ordine e introdurre tutele per lavoratori che attualmente ne sono privi, si parla da tempo di ricondurre tutti i rapporti di lavoro che caratterizzano la fase post-dottorale ad un’unica tipologia contrattuale. Il ddl Gelmini non prevede alcun intervento in questo senso, ma occorre segnalare che una proposta che va nella giusta direzione elaborata dall’Associazione 20 maggio è stata recentemente approvata dall’assemblea nazionale del PD. Il contratto che, entro quattro anni dall’applicazione, dovrebbe assorbire tutte le forme contrattuali precarie è stato chiamato CUFR (Contratto Unico di Formazione e Ricerca). Il CUFR dovrebbe essere un contratto a causa mista di natura subordinata finalizzato all’acquisizione delle competenze, delle abilità e dell’esperienza per lo svolgimento di attività di ricerca e, soprattutto, per l’accesso all’insegnamento. La definizione dei compensi e delle modalità d’espletamento del rapporto dalla sua costituzione alla sua estinzione e l’accesso alle tutele sociali, definite per legge o integrative, verrebbero finalmente affidati alla contrattazione sindacale e la durata di ciascun contratto sarebbe compresa fra 1 e 3 anni, mentre la durata massima complessiva sarebbe fissata in 4 anni.
Inoltre, visti i processi di ristrutturazione in atto, a tutti gli addetti delle università occupati nelle varie forme che non siano confermati nei rapporti medesimi si estenderebbero gli ammortizzatori sociali in deroga e, a regime, le università dovrebbero pagare i contributi al fondo per la disoccupazione involontaria, consentendo ai lavoratori l’accesso all’indennità di disoccupazione.
Gli atenei dovrebbero poi riconoscere ai lavoratori non confermati il diritto di ricorrere ai servizi di ricollocamento al lavoro (outplacement) presso agenzie interessate a convenzioni che sarebbero stipulate dal MIUR, la CRUI, il ministero del lavoro, salute e politiche sociali, le Regioni, Italia Lavoro.
Infine, per agevolare percorsi professionali anche esterni al mondo accademico, sarebbero previsti forti incentivi fiscali e contributivi a favore delle imprese che assumono dottori di ricerca e verrebbero riservate percentuali di punteggio a vantaggio dei dottori di ricerca e dei ricercatori a termine nei concorsi della pubblica amministrazione.
In sostanza, la proposta avanzata dal PD con questa nuova modalità di lavoro riesce a cogliere alcune esigenze: sostituire tutte le forme di lavoro precario e ricondurre ad un rapporto di lavoro effettivo quelle con finalità formativa, come l’assegno di ricerca, che in realtà vengono utilizzate spesso in modo improprio dal momento che non costituiscono rapporti di lavoro; avere uno strumento finalizzato alla formazione post-dottorato sulla ricerca, ma anche sugli aspetti dell’insegnamento; avere un vero e proprio contratto di lavoro con tutele e regole definite per il lavoratore e per l’università che, all’inizio, abbia costi ridotti compatibili con l’impegno formativo e con la necessità di percorso e di selezione del sistema universitario; non lasciare soli i lavoratori che escono dall’università ed incentivare l’inserimento delle competenze acquisite in ambito accademico nel tessuto produttivo ed amministrativo del nostro paese.
da Sapere in bilico, Numero 0 Anno I