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«Uno sciopero costituzionale», di Federico Orlando

La restaurazione degli anni Trenta si spegne oggi, nella giornata del silenzio, come l’armata di Cambise nel deserto. Quello che fu il più potente esercito del parlamento, con 100 seggi di maggioranza alla camera e 50 al senato, è arrivato in frantumi sugli scogli della Finanziaria e delle intercettazioni. Costretta dal Quirinale a stare nelle regole e votare la manovra entro i termini prescritti (a giudicarla, penseranno gli elettori), la destra eversiva, che ora rinvierebbe il bavaglio sine die, appare in tutta la sua estraneità strutturale alla democrazia. E ne amplia la crisi di struttura: la convocazione dei giornalisti da parte dei sindacati dei militari è figlia non di un’ideologia sudamericana, ma di una esasperazione. L’America latina non c’entra, salvo che per il presidente del consiglio, in cui Bersani riconosce crescenti caratteri alla Chavez.
Davanti allo scoglio del federalismo fiscale, spetterà per primo a Bossi spiegare ai suoi talebani e mullah chi abbia sbagliato a misurare la lunghezza del salto: se lui stesso, o il premier o il ministro dell’economia che ha scritto la Finanziaria.
Boeri, Ichino, Ricolfi, gli osservatori sociali più accreditati, hanno detto quel che gli italiani debbono sapere. Se gli italiani non fossero così riottosi a leggere la carta stampata, che comporta la duplice fatica dell’alfabetizzazione e dell’analisi, e non s’abbeverassero al relax dei notiziari senza notizie della tv, governi e parlamenti sarebbero costretti a governarli con più cautela.
Davanti allo scoglio delle intercettazioni, sono invece suonate le campane a martello, anche se molti connazionali, imprenditori compresi, confondono quel suono con musica pop. Non abbiamo sentito il presidente e i vertici della Confindustria richiamare l’ovvia connessione che c’è tra manovra di riequilibrio dei conti, rilancio produttivo e libertà d’informazione: un padronato più adulto l’avrebbe rivendicata come bandiera della sua cultura. Ha fatto eccezione, et pour cause, la Federazione degli editori, che al parlamento (e Fini ha rilanciato martedì) ha ricordato la continua caduta dei fatturati pubblicitari e di vendita; e che nel solo biennio 2008-2009 l’indicatore che registra la redditività delle aziende è passato da 260 a 16 milioni di euro, crollo del 94 per cento: una crisi strutturale pari e connaturata a quella del governo e della democrazia.
In questo quadro, la manovra finanziaria, se fosse stata fatta da gente consapevole che il bene immateriale che muove tutto, anche l’economia, è il pensiero, avrebbe mirato a non svilire quel che resta della cultura, informazione compresa; ma puntato su di essa, sull’innovazione, sulla tecnologia, come hanno fatto altri paesi in crisi. Invece abbiamo proposto tagli e bavagli, tagli alla cultura e legge Alfano sulle intercettazioni, per impedire a giudici e polizia giudiziaria di scoprire e perseguire i fuorilegge, e ai giornalisti di farne conoscere delitti e comportamenti illegittimi. Non solo di zingari e immigrati, ma anche di governanti e colletti bianchi.
È ciò che ha spinto il capo dello stato a rifiutare qualsiasi coinvolgimento – che nel governo parlamentare non gli appartiene – nella fattura della legge; e a riservarsi intera la sua prerogativa di giudicarla, una volta votata e portata alla sua firma. Atteggiamento che costringe tutti, e la stessa armata brancaleone, a leggervi il pensiero del Colle: la legge sulle intercettazioni è inemendabile. Non c’è un costituzionalista in Italia a pensare il contrario: nemmeno il nostro professor Ceccanti, che, in omaggio alla ragione astratta dei professori, una volta s’inventa un referendum autocastrante, un’altra un superscudo per Napolitano che nessuno gli chiede. Non c’è un giornalista libero (a parte i pochi che, legittimamente, si domandano se uno sciopero contro il bavaglio non significhi per un giorno imbavagliarsi), disposto a ignorare che la corte costituzionale ha da tempo indicato i due cardini dell’ordinamento, che nessuno potrà scardinare senza restaurare il fascismo.
Lo ricorda a Europa il professor Alessandro Pace, presidente dei costituzionalisti: «Primo cardine: la libertà di manifestazione del pensiero è la pietra miliare dell’ordinamento, e tutte le altre libertà ne derivano (due secoli fa, ci permettiamo di aggiungere, Jefferson pensava la stessa cosa per la democrazia americana). Secondo cardine: il diritto di sciopero. La Corte, secondo Costituzione, ha rimosso fin dal 1974 l’articolo 503 del codice penale fascista, che puniva la serrata e lo sciopero come sovvertitori dell’ordine statuale. Ne deriva che perfino una serrata che fosse diretta a sostenere l’ordinamento sarebbe legittima».
Nessuno sciopero degli ultimi decenni, forse, è stato più costituzionale e oserei dire strutturale di quello che ci vede oggi impegnati a difendere, contro il ddl Alfano, il primo cardine dell’ordinamento: la libertà del pensiero. Che nel nostro diritto si sovrappone e fa tutt’uno con la libertà di manifestarlo. Berlusconi, esperto in consigli d’amministrazione, queste cose non le sa. Nei suoi ambienti il diritto non usa. Le sue legioni, forziste, fasciste, leghiste, ne sanno meno di lui; e chi ne sa, ha paura che lui se ne accorga e lo mandi al Moloch. Che non disdegna sacrifici umani, abbiano nome Previti o Scaiola o Brancher o Dell’Utri; o non abbiano nome, come il manzoniano “vulgo disperso”, che gli riempie i forzieri, le urne e il letto.

da www.europaquotidiano.it