Lo sciopero della stampa pone al paese una domanda ancor più generale: è possibile continuare in questo modo? E´ possibile continuare a subire un deterioramento così accentuato e rapido del rapporto fra potere politico e cittadini? Una violazione così esplicita di regole consolidate, di norme essenziali, di principi costitutivi? Una violazione, va aggiunto, che il governo ha deciso di imporre anche se le sue argomentazioni erano sin dall´inizio poco credibili, spesso intessute di falsificazioni aperte (si pensi alle cifre sul numero degli intercettati). È ben difficile credere che la legge-bavaglio abbia a cuore la privacy dei cittadini: è quasi più facile convincersi che un anonimo benefattore abbia segretamente pagato la casa dell´ex ministro Scajola. O che ci fosse davvero bisogno di un ministero senza nome né ragione per l´imputato Aldo Brancher, la cui condotta ha illuminato bene il senso di impunità di questo ceto di governo. Più ancora, come ha scritto Stefano Rodotà, quella «legalità speciale» (o illegale) che il governo persegue per consolidare l´eversione quotidiana, lo stravolgimento quotidiano delle istituzioni.
Libertà di stampa, autonomia della magistratura, etica della politica: l´intreccio fra questi nodi viene alla ribalta ormai da tempo, assieme all´uso spregiudicato del potere come schermo e scudo. Ed è evidente il cemento che lega nello stesso progetto la legge sulle intercettazioni, il lodo Alfano – nelle sue rinnovate versioni – e lo svuotamento progressivo di un Parlamento in cui il premier pur godeva di una larga maggioranza. Al centro della scena si erge da tempo un potere sempre più delegittimato, con una «politica del fare» andata in pezzi: lo denuncia in modo drammatico la sofferenza aquilana, che anche ieri gli abruzzesi hanno portato all´attenzione degli italiani.
C´è un nesso fortissimo non solo fra questi aspetti ma anche fra essi e il clima caotico che ha accompagnato e accompagna una legge finanziaria di grande importanza: la necessaria gravità e serietà delle argomentazioni è stata sostituita da un clima confuso, via via oscillante fra l´ultima spiaggia e l´assalto alla diligenza. Con l´irrisione del federalismo e al tempo stesso dell´equità sociale.
Nell´alternarsi di decisioni e di controdecisioni, di «refusi» e di smentite, l´elemento di rigidità è stato sin dall´inizio uno solo, l´impegno a non introdurre nessuna forma di tassazione. Nella demagogia del premier le tasse sono solo un modo per metter le mani nelle tasche degli italiani, ma la stretta economica rende ancor più chiare le conseguenze di questa deformazione (che è anche stravolgimento etico). Evitando scelte fiscali generali, dai parametri definiti, si finisce in realtà con il metter davvero le mani nelle tasche dei cittadini, e nella maniera più ingiusta: colpendo ulteriormente quella parte del paese che già paga realmente le tasse e lasciando sostanzialmente indenne la galassia dell´evasione. A questo rimandano le ipotesi variamente avanzate di riduzione degli stipendi nel pubblico impiego, con il blocco degli aumenti concordati o automatici (per non parlare del maldestro balletto sulle tredicesime). A questo rimandano i tagli alle Regioni, che mettono in difficoltà servizi essenziali. A fronte, intangibili, i 60 miliardi che costituiscono la annuale «tassa della corruzione», secondo le stime della Corte dei Conti: cioè la cifra sottratta alla legalità e ai cittadini dalle «cricche», dalle loro articolazioni e dai loro referenti politici. Più del doppio della manovra che sta lacerando la maggioranza e che graverà sugli italiani.
In questo quadro più ampio la mobilitazione contro la legge-bavaglio si è fatta realmente sentire. È stata, ed è destinata ad essere ancora, un punto di riferimento salutare e importante, e non accadeva da tempo. Eppure si ha l´impressione che vi siano ancora freni, afasie e incertezze che impediscono un pieno «prender la parola» dei cittadini, un loro più deciso «scendere in campo». Pesano stanchezze e disillusioni, pesa l´aver visto più volte svanire le proprie speranze di cambiamento. E pesa, va aggiunto, una forte inadeguatezza delle opposizioni sia sul terreno delle scelte immediate che nell´individuazione di una prospettiva più ampia. I due aspetti sono ovviamente intrecciati: apparirebbe surreale ogni discussione che non indicasse sin dall´avvio i discrimini da porre oggi, ora, per garantire legalità ed equità. Che non indicasse con chiarezza poche proposte e pochi irrinunciabili veti sui tre nodi principali: legge-bavaglio, legge finanziaria, lodo Alfano. Si può partire solo da qui per avviare quella discussione sul futuro che è scomparsa da tempo dalla agenda della politica, e che è la vera condizione per invertire una deriva.
La mobilitazione della stampa è un´occasione rara per rimettere in moto un processo e per permettere al paese di riflettere su se stesso. È stata rievocata in questi giorni una svolta politica di cinquant´anni fa, segnata dalla caduta del governo Tambroni e dal faticoso avvio di una stagione riformatrice. Fu centrale allora una mobilitazione di piazza senza precedenti ma andrebbe ricordato che anche i giornalisti fecero la loro parte mettendosi in gioco e pagando di persona. Pagò di persona Enzo Biagi, licenziato immediatamente dal settimanale che dirigeva, Epoca, per aver criticato il governo e la sua irresponsabile gestione dell´ordine pubblico. Si misero in gioco i giornalisti de Il Giorno, sfidando le fortissime pressioni esercitate allora da Tambroni su Enrico Mattei (presidente dell´Eni, che aveva la proprietà del giornale) e sul direttore Italo Pietra. Pressioni non platoniche, dato che il licenziamento del precedente direttore, Gaetano Baldacci, era stato deciso qualche mese prima proprio da un consiglio dei ministri. Eppure Il Giorno, l´8 luglio di mezzo secolo fa, fu il primo giornale non comunista a chiedere di fatto le dimissioni del governo: l´editoriale lo firmò Enzo Forcella, che l´anno prima aveva denunciato in un articolo memorabile -Millecinquecento lettori- la subalternità al potere di larga parte della stampa italiana di allora. Anche episodi come questi sono scritti nella storia del nostro giornalismo: gocce, se volete, ma capaci talora di lasciare il segno.
la Repubblica 8 luglio 2010