Qual è la conseguenza della diseguaglianza? Questa domanda, le implicazioni che se ne potrebbero trarre, dovrebbe salire di importanza nelle discussioni di queste settimane sulla migliore politica economica da seguire. In estrema sintesi, al momento si fronteggiano due posizioni. Una è quella degli Stati Uniti, della Francia e di economisti come Paul Krugman di Princeton. Si sostiene che sia importante continuare a sostenere la spesa pubblica per consolidare la ripresa ed evitare che vi sia una seconda recessione. La seconda posizione, seguita da Germania, Regno Unito e da economisti come Alberto Alesina di Harvard, crede al contrario che sia ormai tempo di cominciare a ridurre il deficit per evitare che alla crisi economica faccia seguito una ben più grave crisi del debito pubblico. Alcuni Paesi come l’Italia non hanno praticamente scelta. Con un debito pubblico che supera largamente il 100% del Pil, l’aggiustamento dei conti pubblici è inevitabile. Quel che non è inevitabile, tuttavia, è il modo in cui avviene questo aggiustamento, le spese che si decidono di tagliare, e le riforme che si accompagnano – o, come nel caso della manovra di Tremonti, non si accompagnano – al taglio della spesa.
Tuttavia, credo si stia largamente sottovalutando l’effetto che, sia la crisi, sia i tagli, stanno avendo sulla distribuzione del reddito. Gli scorsi quindici anni hanno visto la disuguaglianza emergere con gran forza in molte delle nostre società, ora continuerà certamente ad aumentare. Le ragioni sono evidenti: la crisi colpisce soprattutto chi perde il lavoro; questi ultimi tendono ad essere i lavoratori meno qualificati e quindi già meno benestanti; i tagli tendono ad essere regressivi e colpire maggiormente chi usa i servizi pubblici. Oltre alle cause della diseguaglianza, tuttavia, sarebbe importante riflettere sulle sue conseguenze. Gli ultimi venti anni di studi politici infatti hanno mostrato come la crescita del reddito sia una condizione fondamentale per il consolidamento dei regimi democratici. I classici del pensiero politico mettono la crescita economica e un livello non eccessivo di disuguaglianza al centro dei fattori di sostegno a una democrazia.
Al contrario, negli ultimi quindici anni, la mobilità sociale si è ridotta, non solo in Italia dove ormai è quasi assente, soprattutto negli Stati che hanno aumentato maggiormente i loro tassi di disuguaglianza. La legittimità delle nostre democrazie non si è mai poggiata solamente sul dato procedurale, sul diritto di voto e sul rispetto della legalità, ma è sempre stata sostenuta anche da risultati considerati, certo migliorabili, ma nel complesso equi. Quanta disuguaglianza sia tollerabile dalle nostre democrazie è una domanda a cui è preferibile non cercare una risposta empirica.
da www.unita.it