La crisi ha aumentato le distanze sociali. Classe media frantumata. Peggio di noi fra le nazioni sviluppate solo Messico, Turchia, Portogallo, Usa e Polonia
ROMA – Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: “La povertà non è più “senza fissa dimora””. La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. “È meno apparente, ma è più profonda”, aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l’ha chiamata il premio Nobel per l’economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani. E l’Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L’eguaglianza non c’è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l’Ocse e la Banca d’Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.
E forse non è neanche più un caso che l’indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il “coefficiente
Più basso è l’indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell’uguaglianza, l’Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.
C’è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell’Ires appena uscita (“Un paese da scongelare”, di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): “In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri”. E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora – si è visto – è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi – la Spagna, per esempio – si sono mossi in direzione esattamente opposta.
La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l’ultimo dato della Banca d’Italia contenuto nella periodica indagine su “I bilanci delle famiglie italiane”, il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell’intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni. Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l’alto e affonda i più poveri. “Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas”, racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell’attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d’Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell’eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L’eguaglianza è anche questo.
E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l’età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l’incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 – secondo la Fondazione Nord-Est – Trieste manterrà i primati. Perché l’eguaglianza – è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro “La misura dell’anima” (Feltrinelli) – migliora “il benessere psicologico di tutti noi”. Di più, secondo i due studiosi: “Tanto la società malata quanto l’economia malata hanno le proprie origini nell’aumento della diseguaglianza”. E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all’origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l’aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.
Di certo tra i frutti di questa “economia malata” ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche – lo abbiamo visto – gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch’esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i “poveri” sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il “caso Pomigliano” ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.
Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l’Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: “La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all’anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell’occupazione”. Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane – ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro “Contro i giovani” (Mondadori) – guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.
da la Repubblica del 5 luglio 2010