SONO passati tre mesi dal voto regionale ed è come se i partiti procedessero senza bussola. La maggioranza, in particolare (l’opposizione staziona, già da tempo, nella penombra). Non è in grado di trasmettere “un” senso all’azione di governo. Ma una maggioranza di governo ha bisogno di indicare valori e obiettivi comuni. Deve comunicare le priorità. Ha bisogno di una guida riconosciuta e condivisa. Capace di decidere. Ma quando il premier annuncia in tivù: “Ghe pensi mi”, è segno che qualcosa non funziona. Infatti, se davvero “ci pensasse lui” a dettare la linea alla maggioranza e al governo, ebbene: non avrebbe bisogno di annunciarlo. In tivù. Perché chi “comanda” davvero non ha bisogno di dirlo. Comanda e basta. Anche quando si allontana dal Paese per qualche giorno. Dover minacciare i propri alleati (?) in tivù, per avvertirli che, da domani, “Ghe pensi mi”, è segno di frustrazione. È la reazione del leader che “personalizza” l’identità del Centrodestra contro la “sua” maggioranza. Dove non si scorge una sola identità. Semmai, molte e diverse. Quindi, nessuna.
Non era mai avvenuto. In passato, i governi avevano sempre proposto un’idea, un marchio da esibire. Magari per ragioni di marketing, vista la crisi dei grandi progetti e delle grandi ideologie. Lo aveva fatto perfino il centrosinistra, durante le sue complicate esperienze di governo. Negli anni Novanta: il contrasto alla sfida secessionista e l’ingresso nell’Europa dell’euro. Nel 2006, all’avvio del secondo governo Prodi: la liberalizzazione delle professioni.
Il centrodestra, però, aveva sempre dettato un’agenda di priorità molto ben definita. Sia al governo che all’opposizione. Forza Italia, Lega, in parte An. Ciascuno con il proprio slogan. Ma insieme. Uniti nel segno e nell’immagine di Silvio Berlusconi.
A metà degli anni Novanta: il “nuovo”, il cambiamento. La questione settentrionale. La riduzione dello Stato assistenziale e fiscale. Negli anni Duemila: la lotta contro il declino, le grandi opere. Ma soprattutto: la sicurezza “personale”. Contro l’aggressione della criminalità comune, contro l’invasione degli immigrati. Negli ultimi anni: il federalismo. Infine, la logica del “fare”. (Tranquilli. “Ghe pensi mi”.) Ma oggi, due anni dopo il largo successo del 2008, con una larghissima maggioranza parlamentare, è difficile “capire” questo governo. Il quale fa poco, ma dice anche troppo. E spesso si contraddice. Questa maggioranza: parla troppi linguaggi, usa troppe parole. Ha troppi volti. Più che ambigua (nell’esercizio del potere l’ambiguità può essere una virtù), appare confusa. L’immigrazione e la criminalità comune. Svanite. Non si sa come né perché. In compenso, è cresciuta la disoccupazione (nelle statistiche e nella percezione sociale). Di cui, ovviamente, il governo non parla. Perché inquietare una società già inquieta? Alimentare lo spirito disfattista? Però, all’improvviso, si annunciano – e si assumono – misure economiche severe. Si agita lo spettro della Grecia. E allora – ancora – non si capisce: la crisi c’è o non c’è?
Gli altri obiettivi-chiave procedono a fatica. Tra annunci roboanti e successive frenate. Come per l’università. Di cui, da anni, si annuncia la riforma. Anzi: la Riforma. Che, però, slitta. Mentre le risorse calano. Poi, il fisco. Una bandiera del centrodestra liberal-federalista. Si promette di ridurne la pressione e di semplificarne il procedimento. Ma domani, oggi ancora non si può. Il federalismo, invece, resta una priorità. Una bandiera. Sventolata dalla Lega. Che minaccia, se non venisse realizzato subito, la secessione. Di fatto, avanza un federalismo senza autonomia. Dove i governatori non governano neppure se stessi e si autodenunciano “curatori fallimentari”. Dove i sindaci vedono crescere le proprie competenze e diminuire le risorse.
La manovra finanziaria. Nessuno sa come sarà davvero, alla fine. Ogni giorno un nuovo emendamento, smentito all’indomani. Ultimo: il taglio alle tredicesime dei poliziotti. Perfino Bossi: non sembra più lui. Prima provoca. Sostiene che la Nazionale comprerà la partita contro la Slovacchia. Poi ritratta. Come un Berlusconi qualsiasi.
La maggioranza. Questa larga maggioranza. Non ha un’idea da comunicare. E neppure qualcuno che la comunichi. Per conto di tutti. Ci penserà Berlusconi, ma da domani. Per ora, definirla divisa è un eufemismo. Fini e i suoi: sono già all’opposizione, anche se stanno ancora nella maggioranza. La Lega: non può lasciare a Fini questo ruolo. Ma non può permettersi neppure di rappresentare un governo centralista e anti-federalista. Contestato dai governatori e dai sindaci. Tremonti: è il vero premier. Ma non si può dire.
L’unica vera – e visibile – missione del governo sembra essere la difesa del premier. Dei suoi interessi, dei suoi collaboratori e amici. Contro ogni minaccia legale e politica. Contro i giudici, i giornalisti. Contro le intercettazioni. Con fatica crescente, però. Perché le leggi “personali” procedono tra modifiche, accelerazioni e rallentamenti. Deviazioni. E tante proteste, tante manifestazioni contrarie.
Troppo poco per costruire un’identità. Emozionare gli elettori del Nord e del Sud. Convincere gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Rassicurare i pensionati e i lavoratori dipendenti. Anche perché latitano i nemici da combattere. I comunisti: chi li ha visti? Il “complotto di giudici e magistrati”: dopo tanti anni, suona come un disco rotto.
Questo premier – e questo governo – in campagna elettorale permanente, senza elezioni da affrontare, a breve periodo, appare sperduto. E, Berlusconi, probabilmente “ci pensa (lui)”. Al voto anticipato. Per ritrovare una missione e un senso. Tuttavia, per chiudere una legislatura, per andare a nuove elezioni, il premier dovrebbe essere in grado di imporle (e di scaricarne le responsabilità all’esterno). Dovrebbe, comunque, spiegarne il significato.
Non sarà facile, in quest’epoca di politica insignificante.
da www.repubblica.it